Adeegso tilmaantan si aad u carrabbaabdo ama ugu samayso link qoraalkan http://hdl.handle.net/2307/640
Cinwaan: La frode alla legge nel diritto interno e l'uniformazione europea della disciplina dei contratti
Qore: Pompeo, Valeria
Tifaftire: Gentili, Aurelio
Taariikhda qoraalka: 26-Mar-2010
Tifaftire: Università degli studi Roma Tre
Abstract: La presente ricerca si è proposta di individuare una serie di questioni che il tema, per così dire «classico», della «frode alla legge» pone anche nella prospettiva del diritto privato europeo. Dopo aver tentato di raccogliere spazi e frammenti di arresti p er estrapolarne un quadro organico, ci si è così trovati a dover trattare una serie di tematiche che alludono a una omogeneità di argomenti (quelli concernenti l’autonomia privata) che seguono, in concreto, itinerari tutt’altro che omogenei. Il che ha reso difficile il tentativo di delineare una sintesi il più possibile completa dei temi trattati. Piace iniziare questo studio da due passi emblematici, che testimoniano come il tema della «frode alla legge» ha appassionato giuristi e studiosi di ogni tempo, mantenendo col trascorrere dei secoli una persistente attualità. Il primo passo è di Jhering e fa riferimento alla frode nell’esperienza romana: «La stessa arte che proteggeva il diritto, che l’aiutava nel suo progresso e nel suo perfezionamento, serviva nella vita anche ad eludere le sue disposizioni, a scansarle o a paralizzarle. Ai sotterfugi che scienza s’ingegnava di trovare per raggiungere fini leciti, corrispondevano i sotterfugi di cui si serviva la vita per raggiungere fini illeciti. L’astuzia romana era ingegnosa nello scoprire tali sotterfugi; non appena uno era reso impossibile, subito ne era scoperto un altro; non appena la legge lo scovava da un nascondiglio, subito s’impadroniva di un altro […]. Nessun rapporto fu escluso da questa fraudolenta utilizzazione, nulla era sacro, né il matrimonio, né la parentela, né l’onore; non vi fu un istituto giuridico che non fosse trascinato nella polvere al fine di raggiungere qualche scopo inconfessabile e spesso, senza saperlo, perfino la giustizia fu costretta a cooperare al conseguimento di scopi illegali mediante processi concertati in precedenza» (R. von JHERING , Geist des römischen Rechts, III, Lipsia, 1924, § 57, p. 362). Il secondo passo è invece contenuto in una sentenza della Corte di giustizia del 21 febbraio 2002: «Uno Stato membro ha il diritto di adottare misure volte ad impedire che, grazie alle possibilità offerte dal Trattato, taluni dei suoi cittadini tentino di sottrarsi all’impero delle leggi nazionali, e che gli interessati possano avvalersi abusivamente o fraudolentemente del diritto comunitario» (punto 62, causa C255/02). Un’analisi, seppur veloce dei due passi, è sufficiente a disvelare la complessità di un tema che nel corso dei secoli si è arricchito di un ulteriore ed impensabile risvolto: la possibilità di una frode alla legge «comunitaria» o «europea». L’esperienza diacronica del concetto di frode ha reso necessaria una ricostruzione storico-comparatistica, non come indagine fine a sé stessa ma come analisi rivolta a svelare le ambiguità strutturali e funzionali di tale concetto. Dottrina, prassi e giurisprudenza si misurano, infatti, con una normativa codicistica che offre una trama talmente scarna, quando non addirittura incerta, da rendere essenziali e i riferimenti storici, da cui ancòra originano fondamentali questioni interpretative, e i riferimenti comparatistici, entro cui va inquadrata la tendenza all’uniformazione di un diritto privato europeo. Del resto, è risaputo che la comparazione di altri ordinamenti col proprio consente di riguardare gli istituti esaminati anche da prospettive inusuali; com’è risaputo che la ricostruzione storica talvolta chiarisce l’inadeguatezza odierna di concetti e regole. Ai giureconsulti romani si deve la terminologia ed una prima concettualizzazione del fenomeno, tuttavia, l’analisi delle principali fonti in materia di frode denota in modo piuttosto evidente come l’approccio all’istituto de quo, seppur pregevole, fosse basato sull’esame di concetti alquanto generici: l’elusione si risolveva sostanzialmente nel contrasto tra verba e voluntas o sententia legis. Il fenomeno della frode alla legge nascondeva un problema facilmente risolvibile mediante un corretto utilizzo dello strumento interpretativo: la lotta alle elusioni non necessitava della creazione di una figura giuridica autonoma, era sufficiente a tal fine il ricorso alla pratica dell’interpretazione «secondo lo spirito». La fase di mera descrizione della tradizione romana venne superata solamente a partire dalla metà del XIX secolo, periodo in cui gli interpreti, soprattutto in Germania, iniziarono a fornire importanti tributi al problema delle elusioni mediante uno studio critico del fenomeno ed una rielaborazione autonoma delle fonti. Tuttavia, la tradizione romana dell’interpretazione, fondata sulla negazione di un autonomo problema di frode alla legge, costituì la base ideologica delle scelte dei compilatori del codice civile italiano del 1865, giustificando il mancato inserimento di un’apposita disposizione sul tema. L’esigenza di scongiurare che la rigorosa predeterminazione per fattispecie delle norme imperative si tramutasse in un’occasione per i privati di aggirare le medesime statuizioni sta alla radice della disposizione che il legislatore del 1942, diversamente da quello del 1865, ha voluto esplicitamente dettare, disposizione che consente al giudice di sanzionare un contratto, sebbene questo non contrasti direttamente con la legge sulla base di una interpretazione non strettamente letterale della stessa. L’excursus storico del fenomeno elusivo, qui brevemen te tracciato, è sufficiente per constatare come l’approccio a siffatto fenomeno, sia pure nelle diverse epoche, sia stato sempre penalizzato dall’errata premessa dell’inesistenza di un autonomo istituto della frode alla legge, che ha poi portato alla riconduzione dello stesso ora nell’alveo di questioni meramente ermeneutiche, ora nell’ambito della figura della illiceità. La varietà di approcci alla problematica figura della frode alla legge, sia pure con forte approssimazione, può essere semplificata nella dicotomia tra visioni oggettivistiche e prospettive soggettivistiche. I sostenitori del primo orientamento, riprendendo la concezione propria della dottrina classica – che va dai giuristi romani ai pandettisti e, in particolare, a Bähr e Kohler – afferman o che in fraudem legis agere significa perseguire il fine vietato in modo occulto, rispettando i verba legis e violandone la sententia; laddove, invece, il contra legem agere consiste nel violare i verba della norma imperativa in modo palese e diretto. Il contratto in frode alla legge realizzerebbe un risultato economico identico a quello vietato dalla norma elusa ma, diversamente dal contratto contro la legge, che concretizza le suddette finalità in via immediata, lo realizza in via mediata, vuoi per il carattere indiretto o fiduciario del contratto stesso, vuoi per il suo collegamento con atti e contratti ulteriori. In altri termini, l’elemento che caratterizza la frode sarebbe costituito dall’agire nascosto, indipendentemente dalla valutazione dei moventi soggettivi che codesto agire hanno determinato. Va tuttavia osservato che l’idea di fondare la distinzione tra contra legem agere e in fraudem legis agere nella modalità – occulta o manifesta – della violazione, oltre a non essere supportata da alcun chiaro dato normativo, porta a delle conclusioni giuridicamente inesatte. Nulla esclude che un contratto il quale urti, sia pure nascostamente, contro il disposto di una statuizione normativa possa qualificarsi come direttamente illecito, riuscendo comunque a realizzare una situazione contraria, sia pure non icto oculi, allo scopo che la norma imperativa intendeva perseguire. È quello che accade laddove le parti decidano di occultare un negozio illecito sotto le vesti di uno lecito, secondo lo schema della simulazione relativa. È evidente come i n tali casi lo strumento simulatorio, pur creando una situazione di apparente conformità al dettato normativo, non rappresenti il mezzo per frodare la legge, quanto la via prescelta dai privati per occultare la violazione diretta di una norma imperativa. Pertanto, una volta squarciato il velo dell’apparenza, il contratto dissimulato andrà dichiarato nullo ai sensi del combinato disposto dell’art. 1418 c.c. con la norma imperativa di volta in volta violata. Peraltro, taluni Autori hanno evidenziato come la tesi oggettiva finisca con il negare autonomia alla figura del contratto in frode alla legge. Sostenere, infatti, che il contratto in frode permette il conseguimento dello stesso risultato economico-pratico del contratto contro la legge equivale a dire che il contratto in frode è esso stesso un contratto contro la legge. L’approccio oggettivistico, lungi dal fondarsi su rigorose basi dogmatiche e strettamente legato al dato squisitamente fenomenico, finisce con il ricondurre il fenomeno elusivo ad una questione di corretta interpretazione della norma violata, attribuendo all’interprete, mediante il procedimento ermeneutico, il compito ultimo di individuare, caso per caso, i verba e la sententia legis, al fine di stabilire sino a che punto il rispetto dei primi coincida con l’attuazione della seconda. In definitiva, tale teoria si ferma all’apparenza del fenomeno, senza approfondire opportunamente gli elementi strutturali del negozio fraudolento. L’obiezione deriva direttamente dai principi relativi all’interpretazione della norma giuridica, principi sui quali si basa la stessa teoria che arriva alla conclusione in esame. Non si può infatti disconoscere che sia un canone fondamentale d’interpretazione quello secondo cui la volontà obiettiva della legge può essere ricavata non solo dal significato letterale delle parole , ma anche da una interpretazione logica, la quale si presenta principalmente come interpretazione sistematica e storica. Ogni qual volta l’interprete, mediante un uso corretto degli strumenti volti ad individuare il vero senso della legge, affermi che questo non coincide con l’espressione letterale impiegata dal legislatore, ma per ipotesi sia più ampio di quella, non aggiunge qualcosa di estraneo alla norma, ma, rimanendo fedele allo spirito di questa, ne chiarisce la portata: in tal senso si afferma, a ragione, che qualunque sia il risultato cui si perviene mediante l’interpretazione, sia esso restrittivo o estensivo, questa è sempre dichiarativa. Alla luce di ciò, appare difficile intendere quale sia il fondamento di una distinzione fra atti contrari alla legge e atti in frode alla legge. Il secondo orientamento, in chiave soggettivistica, individua il dato caratterizzante il comportamento fraudolento nell’intenzione dell’agente di sfuggire all’applicazione della norma imperativa. Tale requisito finalistico, la cui rilevanza costituisce di per sé una novità rispetto alla teoria oggettiva, si atteggia peraltro in modo particolare, indirizzando le parti al perseguimento di uno scopo analogo – ma egualmente dannoso – a quello conseguibile mediante la violazione diretta della norma. In definitiva, per i sostenitori dell’indirizzo soggettivo, il contratto è in frode alla legge allorquando le parti, mosse da un intento elusivo, conseguono finalità «analoghe» e non «identiche» a quelle vietate dalla disposizione violata, rendendo così in parte vana la formulazione della disposizione medesima. Il contratto quale mezzo per il raggiungimento di un risultato economico-pratico identico a quello scongiurato dalla norma viola esplicitamente quest’ultima: perché possa parlarsi di frode in senso tecnico giuridico occorre che le parti, approfittando dell’imperfetta formulazione della legge, ottengano dei risultati che, pur violando le ragioni ultime del divieto, si pongono al di fuori dello spazio protetto dalla norma imperativa mal formulata. L’indefettibilità dell’intento fraudolento sarebbe desumibile, secondo tale indirizzo, dallo stesso art. 1344 c.c., il quale, ritenendo in frode il contratto impiegato quale mezzo per eludere l’applicazione di una norma imperativa, lascia intendere la necessità dell’esistenza nelle parti di un motivo che le abbia indotte a scegliere un determinato negozio. Al riguardo, si è criticamente osservato che l’intento fraudolento sembra sovrapporsi alla figura del motivo illecito determinante e comune alle parti di cui all’art. 1345 c.c. Coloro i quali caldeggiano un approccio di tipo soggettivo al problema della frode precisano, invece, che le parti sono animate da ben due intenti: il conseguimento di un risultato analogo a quello proibito e la volontà di eludere la norma. In altri termini, lo scopo di aggirare il divieto posto dalla norma, accompagnandosi al motivo ultimo di ottenere il risultato analogo a quello vietato, costituirebbe per i contraenti un motivo importante ma non esclusivo, non integrando così i requisiti di legge sul motivo illecito. Si tratta di una ricostruzione che tende a spostare l’incidenza dell’analisi dell’atto fraudolento dagli elementi strutturali oggettivi, valutati in relazione alla norma imperativa che si intende violare, al movente che ha spinto il soggetto ad agire. Tale indirizzo sembra inidoneo a dare una visione organica del fenomeno sotto il profilo strettamente giuridico ed oltretutto si scontra con la posizione della dottrina, quanto meno di quella tradizionale, ferma nel negare rilevanza giuridica al motivo. Senza contare che l’approccio soggettivo non riesce a spiegare come l’intenzione fraudolenta che anima i contraenti possa rendere illecito un comportamento che in assenza di essa è pienamente conforme al dettato normativo. Si obietta, al riguardo, che è assurdo far dipendere il carattere fraudolento di un negozio dalla mera valutazione che il soggetto interessato fa del proprio comportamento. Per converso, altrettanto discutibile è rinunciare a sanzionare quelle procedure negoziali che realizzano, sia pure in via indiretta, un risultato contrario ad una norma imperativa in ragione del mancato raggiungimento della prova circa l’esistenza dell’intenzione fraudolenta, attese anche le difficoltà probatorie che sempre si presentano quando si ha a che fare con requisiti di carattere soggettivo–psicologico. A ciò si aggiunga che l’intento fraudolento di cui si discute è riconducibile all’elemento subiettivo del dolo piuttosto che a quello della colpa, la quale, pur avendo un sostrato psicologico, è tuttavia ancorata a parametri oggettivi. Così facendo – fatta salva l’ipotesi in cui sia la stessa norma violata a richiedere la presenza dell’elemento intenzionale – si finisce con l’esigere per la configurabilità della frode alla legge un di più (cioè l’intenzionalità) rispetto a ciò che si richiede perché si abbia una violazione diretta della legge. Peraltro, la frode così intesa contrasta con un principio cardine del nostro ordinamento, riassunto nell’antico brocardo «ignorantia legis non excusat», secondo cui l’ignoranza della legge non esclude l’applicazione della sanzione prevista per il caso di violazione della stessa. Meritevole di interesse è la posizione del Morello, il quale, nel tentativo di superare la impasse a cui aveva condotto la teoria soggettiva, propone una rivisitazione del concetto di intento fraudolento. Quest’ultimo non andrebbe inteso quale stato subiettivo appartenente alla sfera introspettiva delle parti, quale concreta volontà di porsi al di fuori dall’area di applicazione della norma, ma, più correttamente, dovrebbe essere desunto dalla presenza di elementi sintomatici oggettivi. La prova dell’intento fraudolento risulterebbe così alleggerita, libera da quelle difficoltà che sempre si presentano quando si ha a che fare con requisiti di carattere soggettivo–psicologico. L’intento elusivo, epurato da quella connotazione squisitamente psicologica, diventa pertanto suscettibile di essere provato sulla base dei soli elementi oggettivi desunti dalla situazione economica e dagli interessi in gioco, ovvero dal modo stesso con cui è congegnata l’operazione negoziale. Volendo riassumere l’attività richiesta all’interprete ai fini del raggiungimento della prova dell’intento elusivo, si potrebbe dire che essa si sostanzia principalmente nell’accertamento della surrogabilità in senso economico del procedimento elusivo con quello proibito; nell’accertamento della mancanza di un legittimo interesse delle parti; nell’accertamento dei rischi e del costo del procedimento impiegato, al fine di stabilire se l’elusione è espressione di una prassi consolidata o facilmente consolidabile. Preso atto delle difficoltà che si incontrano nel tentare una soddisfacente definizione del fenomeno elusivo, derivanti dalla inevitabile oscurità del concetto stesso di frode, oltre che dall’ambigua formulazione dell’art. 1344 c.c., si è tentato di superare le contraddizioni ed i limiti delle tesi sopra richiamate, con l’auspicio di poter fornire spunti interessanti per una costruzione «attuale» e «in positivo» della frode alla legge. In tale ottica, s’è provveduto a definire il campo di applicazione della disposizione normativa concernente l’argomento trattato, al fine di meglio delineare i limiti entro cui l’interprete può fare riferimento alla clausola generale contenuta nell’art. 1344 c.c. L’indispensabile premessa dalla quale ci si è mossi è che l’essenza del contratto fraudolento consiste nella mancanza di un contrasto diretto fra tale contratto e la norma imperativa. La specificità della clausola generale di cui all’art. 1344 c.c. si manifesta nell’attribuzione al giudice di un potere diretto a colpire tutti quei contratti che, pur non ponendosi di per sé in contrasto con i divieti legali, realizzano un risultato del tutto inconciliabile, nella sua configurazione effettiva, con la disposizione di legge. Il richiamo all’art. 1344 c.c., allora, è tecnicamente fondato laddove l’impossibilità di reprimere la condotta in ragione della sola norma imperativa coinvolta sia già stata accertata, sulla base di un’interpretazione tanto del contratto quanto della legge: una interpretazione che deve essere eseguita nell’uno e nell’altro caso con pieno esaurimento di tutte le direttive ermeneutiche di cui l’interprete può disporre. La finalità di un’autonoma repressione della frode alla legge ha senso soltanto se il principio o la clausola generale non si limitino a enunciare regole ermeneutiche elementari e già note, oltre che testualmente proclamate sia con riguardo all’interpretazione del contratto sia con riguardo all’interpretazione della legge (artt. 1362 c.c.; 12 disp. prel. c.c.). La disposizione in esame demanda all’interprete una responsabilità ulteriore: porre in essere una sorta di giudizio di secondo grado, un singolare giudizio che l’ordinamento contempla quale valvola di sicurezza, «contro il paradosso, sempre possibile e ampiamente sperimentato nella storia giuridica, a tal punto da diventare proverbiale, che la legalità sia usata contro la legge stessa». Il principio antielusivo, di cui la clausola generale contenuta nell’art. 1344 c.c. è diretta espressione, impone al giudice di esercitare un controllo realistico dell’operazione sospetta – un controllo cioè condotto con il parametro delle ragioni pratiche – , consentendogli così di qualificare come antigiuridiche quelle operazioni che pur superando il vaglio di legalità realizzano, per il singolare atteggiarsi dei fatti, una situazione del tutto incompatibile con la disposizione di legge. È proprio in ragione della singolarità di tale giudizio che la dottrina ha parlato della frode alla legge quale strumento di correzione dello stretto diritto: l’interprete è legittimato a reputare «illecito» un contratto che è conforme al dettato normativo. L’autorizzata equiparazione di un contratto lecito ad uno «illecito» trova la sua ragion d’essere nella circostanza che l’accordo, formalmente rispettoso della legge, è accompagnato da un astuto espediente, il cui effetto è quello di ricondurre l’intero senso pratico dell’operazione nell’alveo del risultato proibito. Si ritiene opportuno precisare che non ogni procedimento contorto o anomalo è da ritenersi, in quanto tale, disapprovato dall’ordinamento; è proprio quest’ultimo, infatti, a concedere ai privati la possibilità di individuare, tra le maglie dei divieti, modi leciti di regolare i loro interessi. Non vi è ragione alcuna per impedire a questi di sfruttare la loro abilità negoziale al fine di conseguire effetti economicamente rilevanti, non preclusi dal raggio dei divieti legali. Diversamente opinando, si finirebbe con il sacrificare il principio dell’autonomia privata in favore di un ossequioso rispetto dell’impero della legge, del tutto ingiustificato ove la ragione generale del controllo di chiusura non sia stata pienamente accertata. La ratio dell’istituto deve servire ad orientare il giudizio dell’interprete sul contratto sospetto: la frode alla legge è una misura di salvaguardia del sistema e non giustifica un ampliamento delle disposizioni proibitive fino a reprimere operazioni che non si identificano con il meccanismo elusivo e con la produzione del risultato proibito. Il rischio di un uso distorto dello strumento antielusivo fa sì che il giudizio di accertamento della frode, fondato sul parametro della consistenza economica effettiva dell’operazione, debba essere condotto in modo attento e rigoroso, rifuggendo da facili tipizzazioni casistiche. Definire il contratto in frode alla legge come quel contratto che pur non rientrando nell’ambito applicativo della norma, sia pure estensivamente interpretata, finisce con il frustrare le istanze sottese alla stessa non vuol dire, però, applicare analogicamente le norme imperative. La frode e l’analogia hanno infatti presupposti applicativi antitetici. La tecnica della frode può servire a censurare quelle condotte, non espressamente vietate dalla norma imperativa ma ad ogni modo poste in violazione di questa, che non sono suscettibili di essere sanzionate facendo ricorso al procedimento analogico. In altri termini, il contratto sospetto è qualificabile in termini di frode alla legge allorchè non risulti sanzionabile neanche in ragione del procedimento analogico, vuoi per l’assenza dei presupposti di operatività di tale procedimento – lacuna involontaria – vuoi per l’impossibilità di farvi ricorso – eccezionalità della norma. È da escludere che lo strumento dell’analogia possa rivelarsi utile ai fini dell’accertamento delle fattispecie elusive. Per converso, la censurabilità di un comportamento mediante il ricorso alla ordinaria tecnica di integrazione della legge – l’analogia – impone, a rigore, di escludere la sussistenza di un negozio propriamente in frode. In tali ipotesi sarà più corretto discorrere di negozi «elusivi impropri». La sanzionabilità del contratto fraudolento è il frutto dell’applicazione diretta della clausola generale dell’art. 1344 c.c. in combinato disposto con la disposizione imperativa di volta in volta elusa. Chiarita l’autonomia dell’istituto della frode alla legge rispetto alla categoria della illiceità e alle ordinarie tecniche ermeneutiche, è sembrato opportuno soffermarsi sul significato dell’affermazione, tratta dal tenore testuale della disposizione, secondo cui la causa del contratto in frode a lla legge «si reputa» illecita, anche alla luce della teoria della c.d. «causa in concreto», che rafforza l’esigenza di approfondire il rapporto fra l’ipotesi regolata dall’art. 1343 c.c. e la figura della frode. Le più recenti teorie sulla causa impongono di verificare se l’art. 1344 c.c. continui a vantare un ambito applicativo distinto ed ulteriore rispetto a quello della disposizione in tema di illiceità della causa, ovvero si risolva in una norma la cui funzione è quella di specificare ed integrare quanto affermato dal precedente art. 1343 c.c. In altri termini, occorre chiedersi se l’estensione del giudizio sulla illiceità della causa ai contratti tipici abbia frustrato nella sostanza l’autonomo significato precettivo della clausola generale della frode alla legge. Ad avviso di taluni autori, l’adozione di una nozione di causa quale funzione economico-individuale del contratto segnerebbe la fine dell’utilità della tecnica della frode alla legge quale istituto autonomo, determinando l’identificazione della stessa con la categoria giuridica della illiceità della causa. In altri termini, secondo tale indirizzo, il contratto in frode alla legge altro non sarebbe che un contratto avente una causa in concreto illecita. Tuttavia, l’abbandono del tradizionale concetto di causa e l’adozione della teoria della c.d. causa in concreto non impediscono di continuare a riconoscere al fenomeno elusivo dignità di categoria giuridica autonoma: il contratto la cui funzione economico-individuale risulti essere in contrasto con una norma imperativa è un contratto illecito e non già un contratto fraudolento. Ogni singolo contratto può avere tanto una causa in concreto «illecita» quanto una causa in concreto «fraudolenta», laddove per causa illecita si intende quella che mira a realizzare un risultato economico identico a quello vietato dalla norma imperativa – un risultato economico sanzionabile mediante la diretta applicazione della norma violata – e per causa fraudolenta quella che mira a realizzare un risultato pratico non identico ma affine a quello proibito. Il richiamo alla concretezza della causa può servire a decretare l’illiceità del contratto sospetto, ma si rivela inadeguato ai fini dello svelamento del carattere elusivo dello stesso. Perché la frode possa essere smascherata occorre che dietro la veste dell’operazione, lecita anche nella c.d. causa concreta, siano rinvenibili uno o più fattori oggettivi univoci dai quali sia possibile dedurre che il procedimento contrattuale complessivamente considerato trova la sua unica ragion d’essere nell’elusione della norma imperativa. Del resto, le difficoltà incontrate dall’interprete nella repressione del fenomeno della frode alla legge sono correlate alla presenza di operazioni negoziali congegnate in maniera da superare il vaglio più immediato di liceità della causa c.d. in concreto. In tal senso, il fondamento della sanzionabilità del contratto elusivo andrebbe forse ancorato più alla non meritevolezza dell’interesse perseguito che alla illiceità della causa. L’improprio richiamo al concetto di illiceità della causa può forse spiegarsi in ragione delle contingenze storico-giuridiche del momento. L’istituto della frode alla legge nasce nella mente del legislatore quale strumento diretto a consentire la repressione di quei contratti che ancorchè tipici realizzassero un risultato vietato. L’inquadramento dei canoni della liceità e della meritevolezza tra le forme di controllo dell’autonomia privata e la riferibilità, almeno secondo l’impostazione originaria del codice, della prima ai contratti tipici e della seconda a quelli atipici rendono comprensibile la scelta del legislatore di ancorare la fattispecie elusiva più all’art. 1343 c.c. che all’art. 1322, comma 2, c.c. Tuttavia, il «vizio» della causa del contratto in frode alla legge è del tutto peculiare, esso non è intrinseco allo schema negoziale, ma è reputato esistente nel più ampio contesto dell’operazione fraudolenta, come una qualifica negativa afferente ad un’entità originariamente immune da quel difetto. Seppure non sia direttamente proibito, non è infatti meritevole di tutela l’interesse che, senza lecite utilità residue, si orienti al conseguimento di benefici che si possono raggiungere soltanto per mezzo della deviazione dai contenuti inderogabili delle disposizioni di legge. L’illiceità della causa (art. 1343 c.c.) e la figura della frode alla legge (art. 1344 c.c.) sono certamente riconducibili ad un genus comune, quello dell’uso distorto dell’autonomia privata, ma i due istituti restano autonomamente rilevanti: la presenza della seconda sembra trovare la sua vera ragion d’essere nel ricomprendere un arco di ipotesi che non possono farsi rientrare nella prima. Sotto il profilo rimediale, la tesi della nullità del contratto in frode alla legge si presta a numerose obiezioni, che non si fondano tanto sulle ipotesi alquanto singolari cui questa può dare origine, come il vedere applicata all’atto fraudolento una sanzione più grave rispetto a quella prevista per la diretta contrarietà della norma elusa, quanto sulla eccessiva rigidità della risposta sanzionatoria. Colpire la violazione fraudolenta di norme imperative con un’unica ed indifferenziata sanzione vuol dire accettare il rischio di veder sacrificati gli interessi sottesi alle norme medesime, senza contare che la nullità radicale dell’atto potrebbe spesso rivelarsi sproporzionata rispetto allo scopo che si intende raggiungere. Accade spesso infatti che i privati mirino ad aggirare una norma imperativa la cui violazione diretta è punita con il meccanismo di cui agli artt. 1339 e 1419, comma 2, c.c. In tali ipotesi l’esigenza di dare comunque attuazione agli interessi tutelati dalla norma induce il legislatore a preferire rimedi di tipo conservativo – quali la nullità parziale e l’inserzione automatica di clausole – a quelli di tipo demolitorio – quale la nullità totale. Sostenere la nullità del negozio in frode alla legge anche con riferimento a tali situazioni significa compromettere, se non frustrare, le suddette istanze legislative, senza contare che una soluzione di tal genere potrebbe anche apparire incoerente rispetto ad un sistema rimediale, quello predisposto a fronte della violazione diretta, molto più articolato e complesso. È proprio partendo dall’assunto secondo cui la ratio della repressione della frode alla legge va ravvisata nell’esigenza di affermare comunque l’applicazione della norma di legge elusa che s’è preferito aderire alla tesi della inefficacia. La mancata produzione di effetti dell’atto fraudolento, tenuto conto degli interessi in gioco e dell’evoluzione del sistema, costituisce la sanzione più adeguata: l’irrilevanza dell’atto elusivo per il giudice fa sì che questi possa superarlo liberamente o disattenderlo, applicando ugualmente la norma che le parti avevano inteso aggirare. Sostenere l’inefficacia del contratto fraudolento consente peraltro di soddisfare talune esigenze che il rimedio della nullità non riuscirebbe ad appagare. Si pensi a tutte quelle ipotesi in cui la norma elusa è posta a tutela del contraente debole: la sanzione della nullità potrebbe nuocere piuttosto che giovare alla parte protetta, ponendo così nel nulla gli obiettivi di politica legislativa che si sperava di raggiungere. Il rimedio dell’inefficacia si rivela, dunque, il più coerente con le esigenze del sistema: consentire allo scopo proprio della norma imperativa di affermarsi comunque, anche in presenza di tentativi elusivi. Il rischio che gli istituti predisposti dal legislatore a vantaggio dei privati possano essere concretamente impiegati al fine di perseguire interessi non meritevoli di tutela è oggi ben avvertito dalla giurisprudenza della Corte di giustizia. La consapevolezza che la rigorosa predeterminazione per fattispecie delle norme imperative può risolversi in un’occasione per i privati di aggirare le medesime statuizioni ha indotto la giurisprudenza comunitaria ad affermare, ancorché nulla di simile sia espressamente previsto nei Trattati istitutivi, che i soggetti dell’ordinamento giuridico «non possono avvalersi abusivamente o fraudolentemente del diritto comunitario». Del resto, ogni ordinamento che aspiri ad un minimo di completezza deve contenere delle misure, per così dire, di autotutela, al fine di evitare che i diritti da esso attribuiti siano esercitati in maniera abusiva, eccessiva o distorta. Diverse sono le pronunce della Corte di giustizia che utilizzano le tecniche dell’abuso del diritto e della frode alla legge, da tempo elaborate nel quadro dei sistemi giuridici nazionali, quali strumenti di contrasto alle eventuali manovre dirette alla realizzazione di fini contrari alla ratio della disciplina legislativa. L’interesse manifestato dalla Corte verso la tematica in oggetto attiene in via prevalente a quelle ipotesi di utilizzazione abusiva di situazioni giuridiche soggettive, al di là della loro qualificazione in termini di diritti soggettivi, interessi legittimi, diritti potestativi, riconosciute ai privati da norme comunitarie direttamente applicabili, quali le disposizioni contenute nel Trattato, i regolamenti, le decisioni e le direttive, quest’ultime limitatamente a quelle c.dd. self executing. L’uso indistinto che la giurisprudenza comunitaria fa delle due locuzioni (abusivamente e fraudolentemente), sebbene queste attengano, quanto meno secondo la tradizione invalsa nei singoli ordinamenti nazionali, a due tematiche differenti, ha imposto di approfondire il controverso rapporto esistente tra i due istituti. L’esame delle più interessanti pronunce della Corte di giustizia e dei principali atti posti in essere dalle istituzioni comunitarie dimostra come le categorie giuridiche della frode alla legge e dell’abuso del diritto non siano sconosciute all’ordinamento dell’Unione europea. Tuttavia, l’utilizzo indiscriminato che i giudici comunitari fanno dei due istituti ed il ricorso agli stessi per la soluzione di situazioni profondamente differenti impongono di verificare la reale portata di tali risultati. Le noz ioni di «abuso» e «frode» assumono nel pensiero della Corte di giustizia accezioni diverse. Il quadro di riferimento che viene così a delinearsi è caratterizzato da una utilizzazione di tali nozioni alquanto generica e confusa. La rigorosa articolazione concettuale dei suddetti istituti sembra saltare; l’uso indistinto della frode alla legge e dell’abuso del diritto, nonché l’applicazione di tali nozioni a fattispecie connotate dalla creazione di situazioni «fittizie» fanno della frode e dell’abuso dei termini universalmente validi, capaci di racchiudere situazioni fattuali profondamente differenti e tradizionalmente ricondotte a categorie giuridiche distinte. Emblematico è l’atteggiamento della Corte di giustizia, la quale, in più occasioni, ha inquadrato nell’alveo dell’utilizzazione abusiva o fraudolenta delle prerogative comunitarie fattispecie che – essendo caratterizzate dalla creazione di una situazione apparente finalizzata all’invocazione di una posizione giuridica di vantaggio – avrebbe dovuto più coerentemente collocare nell’ambito del rapporto simulatorio. Sul versante interno, la dottrina dominante continua a sostenere, sia pure sulla base di differenti argomentazioni, la necessità di una distinzione concettuale tra le due categorie. Si evidenzia come la frode alla legge trovi il suo fondamento in una espressa disposizione codicistica (art. 1344 c.c.), diversamente dall’abuso del diritto che, al di là di una sporadica previsione in materia di atti emulativi, trova la sua fonte nella complessa elaborazione dottrinale; nonché come essa vada tenuta distinta dall’abuso anche in ragione del suo diverso modo di atteggiarsi, sostanziandosi nell’impiego dell’autonomia privata per il perseguimento di uno scopo elusivo, laddove, invece, l’abuso consiste nell’esercizio di un diritto in modo non conforme alla disposizione attributiva dello stesso. Non mancano, però, autori altrettanto autorevoli che, muovendo dalle analoghe finalità di contrasto di un utilizzo distorto degli istituti giuridici, annullano la distinzione tra le due categorie della frode e dell’abuso. Intermedia è la posizione di chi qualifica, soprattutto nel campo del diritto internazionale privato, la tecnica della frode alla legge quale species del più ampio genus abuso del diritto, come una sorta di «abuso della norma di conflitto». L’identità di ratio degli istituti della «frode» e dell’«abuso», tuttavia, non pare possa costituire una ragione sufficiente per giustificare il superamento della distinzione concettuale tra gli stessi (sarebbe come dire che la distinzione tra errore, violenza e dolo, attesa l’identità di ratio degli istituti , non ha alcuna ragion d’essere). Il mantenimento della distinzione concettuale tra frode alla legge e abuso del diritto sembrerebbe trovare piuttosto il suo principale fondamento nella circostanza che l’«abuso» nel suo fisiologico atteggiarsi non richiede la presenza di un elemento che, invece, è indefettibile ai fini della configurazione di un’ipotesi di frode alla legge: l’esercizio di un diritto per qualificarsi abusivo non deve necessariamente risolversi nell’effetto elusivo di una norma imperativa, laddove, invece, un contratto è in frode alla legge in quanto si sostanzia nell’aggiramento della norma medesima. La categoria dell’abuso del diritto ricomprende situazioni che per lo più sono riconducibili ad ipotesi di diretta contrarietà e, dunque, di illiceità; diversamente, il contratto in frode alla legge è per definizione un contratto che non contrasta apertamente e direttamente con le norme imperative. In tal senso, sembrano deporre le formulazioni impiegate dai legislatori di quegli Stati membri che hanno scelto di positivizzare la tecnica dell’abuso. In tali disposizioni normative è richiesto di frequente che lo sconfinamento dei limiti imposti dalla buona fede, dai buoni costumi, dallo scopo sociale o economico del diritto sia «manifesto», avvalorando così la tesi di chi sostiene che gli istituti della frode e dell’abuso vadano tenuti distinti. Il carattere «manifesto» dell’abuso mal si concilia infatti con l’essenza della frode, rivelandosi, invece, compatibile con le fattispecie ascrivibili alla categoria della illiceità. Peraltro, la valutazione del carattere abusivo dell’esercizio del diritto è ancorata ai parametri della buona fede, del buon costume o della finalità socio-economica del diritto stesso piuttosto che al perseguimento di un risultato contrario allo scopo della norma imperativa. Del resto, dal punto di vista tecnico- giuridico, non pare configurabile l’elusione di una clausola generale, quale la buona fede. Nell’ottica europeistica, appare fuorviante il pensiero di chi affonda il superamento della distinzione tra frode alla legge e abuso del diritto nell’utilizzo per così dire fungibile che la giurisprudenza comunitaria fa di tali istituti. Un simile orientamento rischia di travisare il significato delle parole della Corte, le quali vanno analizzate avendo sempre ben presente il singolo caso di specie. L’uso indiscriminato che la giurisprudenza europea degli ultimi anni ha fatto della frode alla legge e dell’abuso del diritto, lungi dal nascondere la volontà di pervenire ad una totale equiparazione dei due istituti, è in realtà giustificato dalle forti peculiarità che connotano la maggior parte dei casi portati all’attenzione della Corte. Non va trascurato che le situazioni su cui i giudici europei sono stati chiamati a pronunciarsi sono caratterizzate dall’esercizio di un diritto di derivazione comunitaria con finalità elusive dell’applicazione della normativa nazionale. Si tratta, pertanto, di fattispecie particolari che, pur essendo caratterizzate dalla presenza di un effetto elusivo, non sono tuttavia ascrivibili alla categoria della frode così come tradizionalmente intesa. Presupposto indefettibile dei casi trattati dai giudici comunitari è, infatti, l’esistenza di un «diritto» ed in questo senso potrebbe dirsi che le situazioni affrontate dalla Corte sono da inquadrare più nella categoria dell’abuso che in quella della frode. Non è un caso che i giudici comunitari facciano riferimento, in modo pressoché costante, all’assunto secondo cui «i singoli non possono avvalersi abusivamente o fraudolentemente dei diritti comunitari». L’esercizio abusivo del diritto di derivazione comunitaria diventa il mezzo impiegato per sottrarsi all’imperio delle più severe leggi interne. Tuttavia, il carattere solo eventuale della finalità elusiva dell’esercizio della situazione giuridica di origine comunitaria impone di mantenere ferma la distinzione tra frode alla legge e abuso del diritto: vi può essere un abuso «elusivo» del diritto (si pensi alla copiosa giurisprudenza comunitaria), che rimane comunque un abuso – per le ragioni che s’è detto – e un abuso «non elusivo», che a maggior ragione un abuso del diritto lo è. In tale ottica, sembra porsi anche lo stesso legislatore comunitario, il quale accomuna raramente i due istituti. In definitiva, sembra doversi concludere nel senso che la distinzione tra le categorie dell’abuso e della frode alla legge, nettamente esistente nel quadro di molti ordinamenti interni, debba continuare ad operare anche nell’ottica del diritto comunitario.
URI : http://hdl.handle.net/2307/640
Wuxuu ka dhex muuqdaa ururinnada:X_Dipartimento di Diritto dell'Economia ed Analisi Economica delle Istituzioni
T - Tesi di dottorato

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