Adeegso tilmaantan si aad u carrabbaabdo ama ugu samayso link qoraalkan
http://hdl.handle.net/2307/637
Cinwaan: | Lo stato di diritto. Dibattiti teorici e analisi funzionale | Qore: | Cogliandro, Giovanni | Tifaftire: | Resta, Eligio | Taariikhda qoraalka: | 16-Apr-2010 | Tifaftire: | Università degli studi Roma Tre | Abstract: | Il rule of law rappresenta il sommo ideale giuridico: forse proprio per tale motivo la sua definizione continua a essere problematica. Se fino al recente passato si sottolineava la differenza tra le differenti nozioni confluite nel Rechtsstaat o nell'État de droit, oggi ha perso mordente la differenza tra le concettualizzazioni sulla cui non sovrapponibilità si è posto l’accento in passato: esse vengono viste come le differenti traduzioni nazionali, come l’adeguamento del rule of law alle tradizioni giuridiche di riferimento. Il rule of law si vuole intendere oggi come una categorizzazione trascendente i singoli ordinamenti, in particolare perché come tale viene trattato dagli organismi internazionali più rappresentativi e dai teorici più influenti. Da qui anche la scelta di trattarne declinandolo al maschile, per differenziarlo ancor di più dalla nozione ancipite che se aveva fino al recente passato. Nel nostro lavoro di analisi della jurisprudence e comparazione geografico-teorica ci basiamo sulle ricostruzioni operate con intenti teorici e politici diversi da Heuschling, Trubek-Santos, Ferrajoli, Mattei, e poi sulle recenti raccolte di saggi curate da Zolo, Schapiro, Palombella e Walker. L’ideale giuridico di cui tratteremo si affianca e si sovrappone nella teoria ai tre ideali di una struttura politica quali possono essere configurati da parte di un legislatore accorto: la virtù dell'equità, della giustizia, e del procedural due process. L'equità fa riferimento alle procedure politiche e ai metodi di elezione dei funzionari che distribuiscono il potere politico in modo corretto, cioè che riconoscono a tutti i cittadini la stessa capacità di influire sulle decisioni che li riguardano in modo corretto. La giustizia riguarda le decisioni delle istituzioni politiche di modo che queste distribuiscano le risorse materiali e tutelino le libertà civili in modo tale da garantire un risultato moralmente difendibile. La teoria della giustizia ha ricevuto da Rawls un impulso di rinnovamento teorico, in connessione con la virtù dell’equità e in chiave antiutilitaristica: tale connessione della giustizia con le altre virtù è stata però tentata solo da altre correnti di pensiero giuridico, cui si farà cenno nel corso della trattazione. Kant ne Il conflitto delle facoltà (1798) considera il conflitto della facoltà giuridica con quella filosofica come un equivalente del conflitto tra diritto naturale e diritto positivo. Questa problematica oggi costituisce la spina dorsale della completezza di un ordinamento ricondotta alle sue fonti teoretiche. In termini giuridici ci si potrebbe chiedere: cosa succede se il diritto stesso non dice come colmare la lacuna? Ipotizzare un interprete autentico della volontà del legislatore è una necessità in materia di diritto pubblico, ma viola il principio di non retroattività della legge, e questo è un aspetto problematico degli espedienti giuspubblicisti recenti. Il parlamento acquisisce il diritto ad avere l’ultima parola in materia legislativa, in materia quindi di prescrivere a chi detiene il potere le linee guida della sua condotta, lasciando al detentore della esecuzione la discrezionalità a intensità variabile che ha caratterizzato proprio per questa variabilità le alterne vicende delle diverse forme di governo che si sono alternate an che negli ultimi decenni a livello europeo e italiano. La funzione immediata del principio di legalità è stata di impedire al Re la possibilità di una politica antagonistica rispetto a quella voluta dal Parlamento: la sua origine è plasticamente rappresentata dagli esiti della rivoluzione inglese del 1689. L’onnipotenza del diritto conduce a una serie di aporie di taglio filosofico fondamentale, che esulano dalla semplice problematica propria della teoria politica. Una questione che può sembrare molto astratta riguarda le filosofie del diritto di Rawls e Dworkin nei loro assunti fondamentali, e apre le basi per un fecondo confronto tra le loro prospettive. Le affermazioni riguardo a quanto la legge prescrive, cioè a quel set di questioni che spazia dall’interpretazione al contenuto morale possibile o necessario, hanno la possibilità di essere oggettivabili o sono condannate a rimanere soggettive, quindi oggetto di disputa politica e al più del principio democratico-maggioritario? Questione che spazia quanto meno dalla redazione della Critica del Giudizio di Kant e dalle teorie della modernità liberale fino a Justice in Robes di Dworkin (2006). Forse questo è il vero nucleo della differenza tra il rule of law e il rule of men: se vi deve essere un primato del diritto, le corti costituzionali devono poter avere l’ultima parola sul supremo organo politico, cioè sui parlamenti. La tutela dei diritti sembra essere molto più al sicuro, a livello nazionale e internazionale, se custodita dalle corti, piuttosto che nelle mani dei rappresentanti democraticamente eletti, e questo è anche il fulcro della crisi del positivismo, che vede forse compiuto il suo tornante epocale con l’epoca delle codificazioni auspicate da Bentham. Questo pone però ancora una volta il problema della fonte dell’obbligazione che noi abbiamo di obbedire la legge in generale, e insieme a questo il problema della legittimità del controllo giudiziario delle leggi, che non può essere solo condizionato da un precetto utilitaristico: l’intera produzione di Rawls fu diretta a evitare questa ricaduta in una legittimazione solo legata alla massimizzazione dell’utilità nella limitazione delle ingiustizie. Non possiamo considerare aprioristicamente impossibile la prospettiva di una rifondazione teorica e pratica dello stato di diritto all'altezza delle sfide in atto. Una simile idea equivarrebbe a un'abdicazione della ragione, e varrebbe di fatto a legittimare, i processi di dissoluzione in atto. Di più: essa equivarrebbe a una fallacia naturalistica che confonde ciò che accade con ciò che non può non accadere ed ignora precisamente due connotati dell'approccio normativistico: la consapevolezza che il diritto è fatto dagli uomini e che dipende anche dalla cultura giuridica il senso comune che si sviluppa intorno ad esso e perciò il fatto che esso sia o meno preso sul serio. Bisogna essere consapevoli, in primo luogo teoricamente, che l'esito della crisi dipenderà dal ruolo che sarà in grado di svolgere il diritto e ancor prima la politica e prima ancora la cultura giuridica e politologica. Precisamente, la transizione verso un rafforzamento anziché un tracollo della sicurezza, della democrazia e dello stato di diritto dipenderà da una rifondazione della politica e della legalità, tramite istituzioni politiche e giuridiche all'altezza dei grandi e drammatici problemi sollevati dalla crisi teorica ed internazionale. Si tenterà di distribuire le conclusioni del nostro studio nei due ordini delle questioni teoriche e delle problematiche di politica internazionale d el diritto che ha connotato la nostra analisi nelle pagine precedenti. Si può enucleare una distinzione tra istituzioni di governo e istituzioni di garanzia, distinzione più profonda della classica distinzione che è alla base della separazione dei poter i. Le istituzioni di governo sono quelle investite di funzioni discrezionali, politiche, di scelta in ordine alla sfera del decidibile. Le istituzioni di garanzia sono invece quelle investite delle funzioni di tutela della pace e dei diritti fondamentali, cioè di tutte quelle funzioni strettamente vincolate alla legge: le funzioni giurisdizionali innanzitutto, ma anche quelle deputate alla garanzia in via primaria dei diritti fondamentali, come le istituzioni scolastiche e quelle sanitarie. La tematica dell’immigrazione offre poi un altro scenario complesso in cui l’analisi funzionale del rule of law dovrebbe confrontarsi con le istanze politiche internazionali e le esigenze di giustizia che la possibilità di includere un contenuto morale nella legge pongon o a chiunque, legislatore, esecutivo o ordine giudiziario si confronti con queste istanze medesime. Da un punto di vista politico, come anche da un tentativo di valutazione teorica quale quello da noi condotto appare ormai questionabile la pretesa stessa di una possibile neutralità normativa, in nome di una concezione dei diritti civili e umani propria di quella parte dei libertari progressisti che si trovano in questo sempre più simpatetici con la sinistra democratica americana. A partire da questo punto di vista si possono ad esempio criticare indifferentemente le amministrazioni Bush e Obama nello specifico delle loro immigration control policies. Esse sfidano la nozione stessa di rule of law, in quanto costituiscono delle forme nuove e sempre più invasive di controllo da parte del potere esecutivo sulle forme di vita dei cittadini oltre che dei non cittadini sul suolo dello stato e nelle diverse eventualità degli attraversamenti di frontiera. Forniscono, come dopo l’attacco alle Twin towers, la possibilità di sempre più incontrollate intrusioni del controllo di polizia sulla vita dei cittadini. Quelle stesse frontiere che si vuole sempre più rendere evanescenti per il traffico internazionale delle merci e per gli scambi finanziari, come anche per le forme di moneta sempre più dematerializzate, divengono sempre più dense e impenetrabili per gli spostamenti di esseri umani che cercano un rimedio a condizioni di vita inumane, causate spesso dal recente colonialismo della delocalizzazione della produzione. Sia che si appartenga al campo teorico del giusnaturalismo o dei seguaci di Dworkin, e quindi si vuole che la legge abbia un minimo di contenuto morale, ma anche se si vuole semplicemente prevenire nuove forme di dominio incontrollato e invasivo, e quindi si è semplicemente sostenitori dei diritti fondamentali positivizzati in una legione di dichiarazioni positive appare necessario inserire nell’agenda degli organi internazionali, ma forse prima ancora dei trattati multilaterali, la tutela dei diritti dei migranti. Nella nostra epoca in cui tra breve entreranno in funzione gli scanner all’aeroporto e la polizia di frontiera tra USA e Messico utilizza i mirini agli infrarossi fa sorridere il dileggio di Hegel che, nella sua Filosofia del diritto del 1821, accusava Fichte perché nel suo Diritto Naturale (1796) pretendeva un documento da cui risultassero i dati personali connessi a una silhouette dettagliata della persona. Hegel unisce in questa critica anche Platone, accusato di aver perso il punto di vista filosofico per perdersi nelle minuzie della normativa di dettaglio1. Tuttavia, sostituendo al pessimismo teoretico l’ottimismo proprio di chi si appresta a dare un rilievo critico che serva in qualche modo quale fondamento per una rinnovata prassi legislativa, prima ancora che di una qualsivoglia policy, è opportuno per una nuova forma comprensiva di liberalismo politico sempre più una nuova forma di comprensione, per mantenere la libertà soggettiva nella sua forma più sostanziale, cioè la poliedricità delle libertà. Queste devono essere sempre più garantite da un concetto condiviso di libertà soggettiva a cui faccia seguito una prassi di legislazione positiva multilivello che non consenta più che tale libertà sia considerata individuale e accidentale, ma, secondo la profetica formulazione hegeliana, come qualcosa che è in “Platone poteva tralasciare la raccomandazione alle balie di non star mai ferme coi bambini, di dondolarli sempre sulle braccia; ugualmente, Fichte il perfezionamento del passaporto di polizia, sino a costruire, come si disse, che, dell’individuo sospetto, devono essere, non soltanto messi i connotati nel passaporto, ma dipinto in questo il ritratto. In simili particolari, non è più da vedere alcuna traccia di filosofia; ed essa può tanto più abbandonare simile ultrasaggezza, in quanto, sopra questa infinita quantità di argomenti, può certo mostrarsi liberalissima.” G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Prefazione. sé e per sé. Abbiamo fatto cenno al riguardo come vi siano stati diversi tentativi di rinnovare le categorie hegeliane di comprensione e di descrizione anche prescrittiva di quale sia uno stato di diritto come quello di Brudner e di Habermas, e ancor prima il rinnovamento per il concetto di filosofia pratica secondo concetti hegeliani operato da McDowell e da Brandom, cui comunque riserviamo la critica di ignorare le concettualizzazioni complementari di Fichte nel suo Diritto Naturale del 1796, che ci sentiamo di indagare in indagini che però esulano dallo scopo di questo scritto. Quello che si cerca di proporre, prima ancora che una stato costituzionale di diritto, è a nostro avviso il concetto di uno stato di diritto nell’età delle costituzioni, quale ci sentiamo di definire la nostra età, richiamandoci ma distinguendo la nostra posizione dal ben noto titolo di un saggio di Irti2, cioè mutandone il senso in un contenuto propositivo e ottativo. Gli Stati contemporanei presentano trasformazioni profonde che li hanno sempre più allontanati dal modello dello Stato di diritto, proprio del liberalismo e del positivismo ottocentesco, incentrato sull’assoluto predominio della fonte legislativa. La perdita di centralità della legge è resa palese dal forte ridimensionamento dello strumento che può essere considerato l’emblema della pretesa del legislatore di avocare a sé la disciplina della vita sociale, cioè il codice. La sempre maggiore importanza attribuita alle leggi speciali, il moltiplicarsi di leggi e i sempre più numerosi provvedimenti amministrativi, spesso tra di loro scarsamente coordinati, pieni di formulazioni vaghe, equivoche ed ambigue, frutto di incerte e precarie mediazioni politico-partitiche. È stato notato che la nota tipica della legislazione odierna è il compromesso politico che fa sì che la legislazione da attività normativa razionale guidata dagli interessi generali si trasformi in un coacervo di provvedimenti occasionali. Si assiste così ad un ritorno al particolarismo giuridico, cioè a trattamenti normativi differenziati, che aveva rappresentato il principale bersaglio dei promotori delle codificazioni ottocentesche. Il diritto dei codici è scaduto da diritto generale, applicabile salvo deroghe, a diritto comune, applicabile solo alle fattispecie più generali, non caratterizzate da quegli elementi particolari che ne hanno determinato la sussunzione sotto la legislazione speciale. La marginalizzazione del codice si è poi notevolmente accentuata, da un lato, dopo l’entrata in vigore della Costituz ione, dall’altro, a seguito della nascita di istituzioni internazionali come, in primo luogo, l’Unione Europea. La Costituzione si pone ad un livello normativo gerarchicamente superiore alla legislazione ordinaria, di cui il codice è espressione, sancendo diritti fondamentali e regole cui la legge non può derogare. L’Unione Europea è dotata di appositi organi produttivi di un diritto comunitario di cui l’ordinamento italiano riconosce ormai indubitabilmente l’efficacia: la stessa Corte Costituzionale in diverse pronunce ha affermato la capacità dei trattati comunitari di derogare al sistema costituzionale delle fonti ed ha sottolineato il potere-dovere dei giudici nazionali di disapplicare le norme interne contrastanti con il diritto comunitario direttamente applicabile. Questa esigenza si è sviluppata parallelamente alla progressiva integrazione politica dell'Unione Europea, anche in un paese geloso delle proprie tradizioni giuridiche come il Regno unito. Tale integrazione ha reso il sistema giuridico sempre più permeabile ad influssi giuridici esterni, ai quali i Law Lords erano stati particolarmente sensibili negli ultimi anni, in particolare Lord Bingham3: si è così sviluppata l’esigenza di una giustizia della costituzionalità che in Europa è un elemento ormai essenziale del diritto pubblico nei sistemi a costituzione scritta. Sempre in Inghilterra il tema del rule of law ha subito una serie di influenze che lo hanno portato a interagire con la tematica dell’armonizzazione del diritto in Europa4, con il concetto di balancing, con quello di proportionality5 e con i diritti umani. Dall’ottobre 2009 con l’abolizione della funzione giudicante della camera ristretta dei Lords of Appeal in Ordinary viene intaccata l’eccezione britannica, che tuttavia continua ad avere di fatto una imperfetta separazione tra giudiziario e politico. La possibilità della creazione di un ordinamento sovranazionale di tipo nuovo si scontra con le problematiche legate alla politica della forza esecutiva, che appare irrinunciabile per gli stati, che si sono costituzionalmente aperti ma anche tutelati contro questa eventualità. Come afferma Della Cananea ‚una conclusione di questo tipo esercita un’innegabile suggestione per quanti tendono ad assolutizzare la nota messa a punto weberiana, secondo cui lo ‘stato’ è il nome proprio di quegli ordinamenti territoriali che, dal cinquecento in poi, hanno esercitato il monopolio dell’uso legittimo della forza. Ragionando in questi termini si finisce però per far coincidere la sovranità con la forza, nel vederne come depositario il potere esecutivo‛6. Rimane, come ricorda della Cananea, il caso dei giudici federali negli USA, che hanno più volte costretto il governo a cambiare rotta a riguardo: l’autotutela degli stati sembra al riguardo sempre più residuale e destinata ad Si veda al riguardo il saggio di Mads Andenas and Duncan Fairgrieve, ‘ There is A World Elsewhere’ — Lord Bingham and Comparative Law in Tom Bingham and the Transformation of the Law, a cura di M. Andenas e D Fairgrieve, Oxford University Press, Oxford 2009. Più in generale si veda B. Markesinis, ‘Judicial Mentality: Mental Disposition or Outlook as a Factor Impeding Recourse to Foreign Law’, 80 TUL. L.REV. 1325 (2006). 4 Rimandiamo al nostro Harmonia semper reformanda: the twin ideals of Harmonisation and the Rule of Law , in M. Andenas & C.B. Andersen (eds.) The Theory and Practice of Harmonisation, Edward Elgar Press 2010. 5 Mads Andenas and Stefan Zleptnig, Proportionality: WTO Law in Comparative Perspective, in Texas International Law Journal 42.3 (2007): 370-427. 6 G. della Cananea, L’Unione europea. Un ordinamento composito, Laterza 2003, p 87. 7 erodersi, per una commistione di opportunità politica ed economica, contro la quale, aggiungiamo noi, le corti non potranno resistere indefinitamente. Ulteriori fattori tra gli altri che hanno messo in crisi la legge statuale sono il diritto internazionale privato e la cosiddetta lex mercatoria. Il diritto internazionale privato, cioè l’insieme delle norme che servono ad individuare le regole applicabili ai rapporti tra italiani e stranieri, ha sempre maggior rilevanza nelle odierne società multiculturali, cui si faceva cenno ricordando al riguardo l’opera di Kymlicka e la suo sempre maggiore rilevanza potenziale per i giuristi. La lex mercatoria designa un diritto derivante dagli usi, dai contratti e dai regolamenti degli ordini professionali nel campo del commercio internazionale, applicato dagli arbitri, scelti dalle parti in alternativa ai giudici nazionali, nelle decisioni delle controversie tra operatori commerciali di paesi diversi, ha da tempo superato la frammentazione dei diritti nazionali, rispondendo alle esigenze della globalizzazione dei mercati. La lex mercatoria è criticata per essere un tipo di normazione ad hoc, discrezionale e non trasparente, pertanto incompatibile con i requisiti del rule of law. Sotto il profilo della sua concettualizzazione, gli approcci alla lex mercatoria risultano ulteriormente articolabili: v’è chi ne riconosce la forza giuridica, considerandola ormai come un dato di fatto dell’ordine internazionale, ma nega che essa soddisfi i requisiti formali delle norme giuridiche; v’è chi, invece, rifiuta di ascrivere ad essa valore giuridico, considerandola una mera patologia del diritto, l’effetto di una deriva economicistica del diritto che induce perdita di coerenza e razionalità7. E' chiaro che la costruzione di un ordine mondiale informato ai principi dello stato di diritto richiede la creazione, ben più che di funzioni e di istituzioni di governo, di funzioni e istituzioni di garanzia. Le funzioni di governo infatti, riguardando la sfera della discrezionalità politica, sono tanto più legittimate quanto più rappresentative, cioè vicine al corpo elettorale, ed è bene perciò che rimangano quanto più possibile di competenza degli Stati nazionali ed affidate alle forme della democrazia politica. Non avrebbe senso, del resto, una democrazia rappresentativa planetaria: ciò che occorre creare, a livello internazionale, sono le funzioni e le istituzioni di garanzia, in primo luogo della pace e in secondo luogo dei diritti umani, in sostituzione e se necessario anche contro gli Stati che hanno dimostrato prima la loro sanguinaria primitività nell’epoca moderna e delle guerre sempre più crudeli e antinomiche. Oggi poi gli stati si trovano anche a dare spettacolo della loro inanità e impotenza anche a tutelare i propri cittadini dinanzi ad aggressioni non 7 W. E. Scheuerman, Economic Globalization and the Rule of Law, in «Constellations», 6, 1, 1999, pp. 3 -25. 8 convenzionali, in una situazione sempre più generalizzata a livello internazionale in cui la convenzionalità delle minacce e delle emergenze e diventata l’eccezione. A livello statale assumono maggior rilievo le istanze soggettive, l’allocuzione che invita alla responsabilità morale del singolo operatore del diritto impegnato nella liturgia costitutiva del diritto, cioè in primo luogo nel processo. Il processo e la sentenza hanno una grande rilevanza sia per le parti, sia per l’intera società: da qui i connotati liturgici e, come a più riprese ricordato da Resta il vero e proprio ‚mascherarsi‛ dei giudici, che indossano abiti da sacerdote per dissimulare la loro umanità8. Questo travestimento non è finalizzato a rappresentare il giudice come bocca del diritto, secondo la classica definizione francese, ma ancor di più lo proietta ad essere figurazione terrena della giustizia. Oltre a questa dimensione immaginale della giustizia, ne esiste un’altra, inseparabile da essa, che riguarda in generale tutti gli operatori del diritto, coloro, cioè, che dovrebbero renderla possibile, attraverso i due atti fondamentali che sono la legislazione e il processo. Per quanto riguarda la valutazione della legislazione e della singola legge si può muovere dai recenti sviluppi del dibattito giusfilosofico, forse con una coloritura di positivismo inclusivo, cedendo persino ad una inclinazione atemporale e giusnaturalistica. Questo tenendo conto del tono più raffinato che è stato impresso ai dibattiti recenti: rileva John Finnis che l’affe rmazione lex injusta non est lex non va intesa nel senso che l’esistenza di una norma giuridica è condizionata al suo essere giusta ma nel senso che «una legge ingiusta non è ‚legge‛ nel senso principale del termine [cioè, simpliciter], nonostante lo sia in un senso secondario [cioè, secundum quid]»9. Una tale affermazione potrebbe trovare una congruenza con alcune posizioni proprie degli inclusive positivists, come Coleman, e dei pensatori più accorti come Kramer. Sembra la posizione dialogante fatta propria in Italia tra gli altri da Viola e Schiavello. In particolare Viola sostiene in maniera condivisibile che non bisogna identificare l’autorità politica con l’autorità statale, come si è mostrato tramite il sempre più frequente richiamo al rule of law da parte del diritto comunitario europeo, ma occorre estenderla in qualche modo anche ad altri ordinamenti specifici delle relazioni umane non direttamente politici, ma sempre più influenti come le Organizzazioni internazionali e il governo mondiale dell’economia10. Questi ultimi si collocano a nostro avviso su 8 Tra gli altri Eligio Resta, Il diritto fraterno, Laterza, Roma-Bari 2005 J. M. Finnis, Legge naturale e diritti naturali (1980), ed. it. a cura di F. Viola, trad. di F. Di Blasi, Giappichelli, Torino 1996, p. 398. Più in generale, sul tema del rule of law si vedano le pp. 397-401. 10 Si veda al riguardo F. Viola, The Rule of Law in Legal Pluralism, in Law and Legal Cultures in the 21st Century. Diversity and Unity, ed. by T. Gizbert-Studnicki e J. Stelmach, Warszawa, Oficyna, 2007, pp. 105 -131. 9 9 un piano meta esecutivo, condizionando gli esecutivi nazionali come i principi metagiuridici condizionano in maniera palese o a volte occulta il diritto. Intento di Viola è esplorare un’altra via di collegamento tra il rule of law ed il concetto di diritto, una terza via che differisca da quella per cui il rule of law presuppone il concetto di diritto (Raz), sia da quella per cui il concetto di diritto presuppone in qualche modo il rule of law (Waldron). I legislatori, ma forse più ancora i giudici, dovrebbero essere caratterizzati da un alto esercizio delle virtù, in particolare della prudenza e della giustizia, ma anche della fortezza. Quest’ultima diventa più rilevante quando l'ingiustizia appare la via più facile da seguire, in quanto implica accondiscendenza ai desideri e alle aspettative delle parti, oppure ai condizionamenti dell'ambiente sociale. In tale contesto, il giudice che desidera essere giusto e vuole adeguarsi al paradigma classico della giustizia vivente11, sperimenta la grave responsabilità della sua funzione, che include altresì la dovuta tempestività in ogni fase del processo: quam primum, salva iustitia. Tutti coloro che operano nel campo del diritto, ognuno secondo la propria funzione, devono essere guidati dalla giustizia. Colpisce in particolare il caso degli avvocati, i quali devono porre ogni attenzione al rispetto della verità delle prove, e forse evitare con cura di assumere, come le gali di fiducia, il patrocinio di cause che, secondo la loro coscienza, non siano oggettivamente sostenibili. I giudici si trovano oggi nei sistemi di civil law ad affrontare problemi analoghi a quelli della judgemade law, ma senza il retroterra culturale e sociale dei paesi di common law12. Infatti la produzione legislativa sempre più abbondante, caotica, continuamente modificata, piena di formule oscure e compromissorie, lascia aperti margini molto ampi di ‚creatività‛ da parte del giudice. Tutto ciò ha minato alla base il principio della certezza del diritto: oggi nessun cittadino, neppure il più esperto, è in grado di conoscere il diritto in vigore e, conseguentemente, di prevedere la valutazione giuridica dei suoi comportamenti. Si è posta quindi, drammaticamente, la questione di come recuperare un grado di certezza accettabile, evidenziando che la certezza non è solo un elemento che attiene al momento della produzione del diritto, ma anche un aspetto dell’applicazione giuridica. La prima risposta formulata dalla dottrina è stata quella del ruolo da attribuire alla Costituzione: in quanto posta al vertice la carta costituzionale, che pure ha determinato la crisi della normazione legislativa, consente però di ricostruire l’unità del sistema, le cui norme devono costituire attuazione o almeno 11 Si veda al riguardo il testo di riferimento in Aristotele, Etica nicomachea, V, 1132a L’osservazione è di A. Giuliani, Le disposizioni sulla legge in generale. Gli articoli da 1 a 15. In Trattato di diritto privato. A cura di P. Rescigno. Torino. Vol. 1. 1982. 12 10 non violazione di essa. Le norme costituzionali, fornendo il parametro di legittimità delle norme ordinarie e tracciando le linee di sviluppo delle norme speciali, riducono - o dovrebbero ridurre l’incertezza dal punto di vista della produzione normativa, lasciando intravedere un quadro di riferimento. La società odierna, in continua trasformazione, è sempre più divisa in gruppi e categorie che non condividono valori comuni, ma anzi sono portatori di interessi diversi, spesso fra loro contrastanti e profondamente mutevoli, è caratterizzata da insicurezza e instabilità e non può quindi esprimere un diritto uniforme e indifferenziato. Tale situazione fu ben analizzata tra gli altri da Rawls nel suo Liberalismo politico13: egli spiega come nelle società democratiche vi sia un ragionevole disaccordo in merito alle diverse concezioni della vita e di ciò che ha valore. E' possibile pensare che persone ragionevoli, sinceramente convinte della giustezza dei principi liberali, siano convinte che il valore supremo sia la libertà da incoraggiare a tutti i costi, anche a discapito dell'uguaglianza. Tuttavia, una forma di accordo su alcuni principi che possano essere accettabili anche da chi professa convinzioni (ragionevolmente) diverse è possibile: è possibile cioè un liberalismo "politico non metafisico", garantito da ciò che Rawls chiama overlapping consensus. Tali conclusioni però sembrano a molti insoddisfacenti. Secondo una tendenza oggi largamente diffusa a presentare ogni discorso su valori e principi come un discorso sui diritti, è sempre più sentita in dottrina l’esigenza di un vero e proprio ‚diritto alla certezza del diritto‛14 o, in un senso più ampio, comprensivo di quello di certezza, alla sicurezza15. Nella teoria di Bobbio i diritti umani «sono diritti storici, cioè nati in certe circostanze contrassegnate da lotte per la difesa di nuove libertà contro vecchi poteri, gradualmente, non tutti in una volta e non una volta per sempre»16. Ad esempio la libertà religiosa è un effetto delle guerre di religione; le libertà civili delle lotte dei parlamenti contro i sovrani assoluti; le libertà politiche e quelle sociali della nascita, crescita e maturità del movimento dei lavoratori salariati e così via. 13 J. Rawls, Liberalismo politico, traduzione di G. Rigamonti, a cura di S. Veca, Edizioni di Comunità, Milano 1994. Questo aspetto è stato particolarmente sottolineato da A. Aarnio, il quale impiega “certezza” in un senso molto ampio, non solo per indicare la prevedibilità delle conseguenze giuridiche delle azioni, ma anche per indic are la conformità del diritto a standards valutativi quali la giustizia. Le affermazioni di Aarnio circa l’aspettativa di certezza del diritto, largamente diffusa tra i cittadini delle moderne società democratiche, andrebbero però forse ristrette alla cert ezza tradizionalmente intesa stricto sensu. Si veda A. Aarnio, The Rational as Reasonable. A Treatise on Legal Justification , Dordrecht-Boston-Lancaster-Tokyo 1987. 15 L’ampliamento della problematica della certezza alla sicurezza sarebbe avvenuto nel ventesimo secolo come reazione agli effetti e ai problemi della società borghese contemporanea: così sostiene N. Luhmann, La differenziazione del diritto. Contributi alla sociologia e alla teoria del diritto (1981), trad. it. a cura di R. De Giorgi, Bologna 1990, p 354ss. 16 Norberto Bobbio, L’età dei diritti. Torino 1990, pp. XIII-XIV. 14 11 Certe richieste nascono, infatti, soltanto quando nascono certi bisogni e nuovi bisogni nascono in corrispondenza del mutamento delle condizioni della società. Seguendo queste linee interpretative, si può dunque sostenere che nella società contemporanea, caratterizzata da instabilità, insicurezza, incertezza sia nato un ‚diritto alla certezza‛ o, in senso lato, alla sicurezza, da collocarsi fra i cosiddetti diritti della terza generazione, categoria vaga ed eterogenea, la cui caratteristica è stata spesso individuata nell’essere aspirazioni diffuse, desideri non di singoli, ma di gruppi umani, popoli o nazioni. Tale diritto alla sicurezza è posto dal moderno pensiero costituzionale tra gli ideali che la Costituzione deve perseguire e proteggere. La sicurezza giuridica, a sua volta, presenta una dimensione oggettiva, di derivazione hobbesiana, che Peces Barba definisce «sicurezza attraverso il diritto»17. Vi si può poi ricondurre anche una dimensione soggettiva «la sicurezza nel diritto», la certezza giuridica. Il tema dei rapporti tra diritto e morale non può essere ignorato dall’analisi del concetto di rule of law: la contrapposizione fondamentale tra giusnaturalismo e positivismo giuridico dipende proprio da una radicale divergenza su quale sia il modo corretto di ricostruire la re lazione tra diritto e morale. Spesso si ha un uso sin troppo disinvolto del termine ‘morale’. Il fatto è che ‘morale’ è un termine polisenso e, dunque, è opportuno determinare, per quanto possibile, il significato da attribuire ad esso nel contesto del discorso. Come afferma a più riprese Barberis, quando si riflette sui rapporti tra diritto e morale è importante almeno precisare se si intende il termine ‘morale’ nell’accezione di morale positiva, come «una delle tanti morali diffuse nella società», o in quella di morale critica cioè come una «morale ideale elaborata da filosofi e moralisti a partire dalla critica delle stesse morali positive»18. La polisemia del termine ‘morale’ rileva primariamente in relazione alla tesi, difesa dal positivismo giuridico, della separabilità tra diritto e morale. Alcuni critici del giuspositivismo hanno inteso questa tesi in un senso molto ampio, come se attraverso essa si volesse difendere, almeno a livello concettuale, una autonomia assoluta, da ogni possibile prospettiva, tra diritto e morale. Mettendo tra parentesi la scarsa plausibilità dell’incorporazionismo, nonché le eccessive ed artificiali rigidità del positivismo giuridico esclusivo, il pregio principale del positivismo giuridico inclusivo di Kramer e di altri autori a questa riflessione assimilabili è quello di riprendere la 17 18 G. Peces Barba Martinez, Teoria dei diritti fondamentali (1991), trad. it. a cura di V. Ferrari, Milano 1993, pp. 222ss. M. Barberis, Filosofia del diritto. Un’introduzione teorica , II ed., Giappichelli, Torino 2005, p. 42. 12 lezione dello stesso Hart che si caratterizza per lo sforzo di ricercare sempre una sintesi convincente tra posizioni configgenti. La teoria hartiana dell’interpretazione è una via di mezzo tra formalismo interpretativo e scetticismo normativo, che Hart definisce come «le Scilla e Cariddi della teoria del diritto: esse sono delle grandi esagerazioni, salutari quando si correggono reciprocamente, e la verità sta in mezzo a loro»19. Così, il positivismo giuridico inclusivo può essere considerato l’opportuna sintesi tra positivismo giuridico esclusivo, da un lato, e incorporazionismo, dall’altro. Ogni sistema giuridico non incorpora semplicemente una forma di ordine sociale, ma quella particolare forma di ordine a cui sono attribuiti dei valori concorrenti accolti dai vari gruppi che hanno il controllo dell’attività legislativa, esecutiva e giudiziaria. Essere un positivista non significa negare verità evidenti, ma piuttosto affermare che non è in ness un senso necessario condividere o accogliere questi valori, in tutto o in parte, per poter sapere che il diritto esiste, o quale diritto esiste. A livello internazionale si sono individuate alcune dinamiche espansive della forma di governo della legge come ambizione a una forma globale di governo della legge, paradigma di superamento della post-modernità in un nuovo universalismo il cui contenuto morale è la stessa ambizione di riunire, quindi di pacificare le nazioni. Oggi è sempre più difficile l’imputazione delle responsabilità, cioè l’esercizio di uno dei modi più efficaci per controllare l’esercizio del potere da parte dei funzionari. L’emergere di nuove competenze riguardanti settori prima esclusivamente regolati dal diritto statale, ed ora anche da organizzazioni internazionali o sovranazionali, moltiplica il numero delle autorità competenti e, quindi, produce nuove fonti di restrizione della libertà individuale senza gerarchie definite e stabili. Da questo punto di vista il rule of law dovrebbe accompagnarsi non solo come si è già più volte detto ad una revisione del principio della separazione dei poteri, ma anche a regole sulla circolazione delle autorità e sulla interconnessione tra gli ordini giuridici corrispondenti. Tutto ciò richiede processi di costituzionalizzazione del diritto internazionale e del diritto sovranazionale, che oggi sono già all’opera, quantomeno se ne discute in riferimento a istituzioni di natura economica come il WTO. Vi è poi la zona ancora grigia relativa alle possibilità di cooperazione fra le costituzioni nazionali (multilevel constitutionalism). Da ultimo va menzionato uno degli ultimi sviluppi in tema di diritto internazionale, il cosiddetto soft law. Il sintagma ‚soft law‛ si riferisce ad un’ampia gamma di strumenti: sul piano internazionale si fa con esso riferimento, a seconda dei casi, alle dichiarazioni, per loro intrinseca 19 H. L. A. Hart, Il concetto di diritto, trad. it., Einaudi, Torino 1991, p. 173. 13 natura non dotate di vincolatività giuridica formale, alle convenzioni non ancora ratificate, alle linee-guida emanate da organismi intergovernativi o da organizzazioni non governative. In generale, l’espressione ‚soft law‛ indica quegli strumenti regolativi e quei meccanismi di governance che, pur implicando un certo tipo di impegno normativo, non poggiano su regole vincolanti né su un sistema di sanzioni. L’importanza del soft law si lega al riconoscimento di alcune caratteristiche strutturali del diritto odierno: la differenziazione funzionale ed il policentrismo, la reciproca apertura degli ordinamenti giuridici, talora verso la form azione di una sorta di diritto globale, incaricato della soluzione di problemi che oltrepassano i confini statali e che talora sfuggono alle stesse categorie del diritto internazionale. Nella misura in cui rappresenta una sfida per il formalismo giuridico, il soft law è visto rappresentare un pericolo per il rule of law. Muovendo da istanza al confine tra istituzionalismo e positivismo à la Hart (diritto come fatto sociale) si auspica una diversa visione del diritto, che dia spazio al soft law inteso forma di diritto transnazionale, riconoscendo le radici sociali dei fenomeni giuridici in generale. Gli strumenti di soft law secondo i suoi sostenitori possono considerarsi come mezzi di armonizzazione, unificazione e globalizzazione del diritto. Il soft law è sovente il prodotto degli sforzi per l’unificazione transnazionale e riflette la complessità del pluralismo giuridico globale dove molteplici ordini regionali coesistono con regimi giuridici specializzati. Sembra quindi emergere, in senso complementare all’esigenza di un costituzione economica internazionale, la necessità di individuare una nozione di rule of law che sia emancipata dal riferimento allo stato e, sul piano internazionale, dalla logica esclusivamente interstatale. La visione del rule of law in favore della quale intendo argomentare dà rilievo all’idea dell’interconnessione tra differenti fonti e ordinamenti giuridici. Segnatamente, considerando la sfera internazionale, il rule of law non dovrebbe essere accostato come se si dovesse scegliere tr a una prospettiva cosmopolitica ed una prospettiva statocentrica. Questa contrapposizione perde di significato perché molti cambiamenti, nel diritto interno, transnazionale ed internazionale, sembrano procedere in modo connesso. Pertanto, il rule of law dovrebbe essere configurato prendendo sul serio tale interconnessione. Un apprezzamento del ruolo svolto dal soft law nella costruzione di un diritto tendenzialmente globale, confrontandosi con problemi rispetto ai quali le categorie tradizionali del diritto interno ed internazionale non risultano efficaci, richiede che si muova da una nozione di diritto antiformalistica, antistatualistica, non legicentrica. Si potrebbe riconoscere nel soft law una forma di normatività non in contrasto con l’ideale regolativo del rule of law, adatta alla dimensione globale ed alla diffusione dell’autorità che le è propria. 14 Muovendo dall’itinerario teorico del progetto kantiano si è associato il livello infrastatale del Rechtsstaat con il modello cosmopolitico di pace perpetua: lo scopo ultimo del filosofo di Königsberg è l’istituzione di un allgemeiner Völkerstaat che prenda la forma di una repubblica mondiale, attraverso la riunione degli Stati esistenti sotto una costituzione repubblicana cosmopolitica. Questa era intesa da Kant come estensione ad un livello superiore delle costituzioni repubblicane civili nate dalle rivoluzioni americana e francese: tuttavia, come ricorda Habermas 20, la paura della nascita di uno stato mondiale dispotico (timore forse profetico) spinse il filosofo prussiano a formulare l’idea di un surrogato negativo di tale Weltrepublik in una confederazione di stati o Völkerbund su base volontaria. A garantire la pace in un tale assetto mondiale sarebbero stare tre tendenze favorevoli inquadrate da Habermas: la natura pacifica delle repubbliche, in cui la decisione sulla guerra avrebbe dovuto esser posta nelle mani del popolo, l’affermarsi, a livello mondiale di un esprit de commerce antitetico allo spirito guerresco e da ultimo la nascita di una sfera di opinione pubblica mondiale. È tuttavia a questo punto che la riformulazione habermasiana del progetto originario si stacca dalla traccia rappresentata dal filosofo di Königsberg prospettando l’alternativa di una società mondiale decentrata, di un sistema politico a più livelli che non assume nel suo complesso carattere di Stato. E nel quale non siano riuniti i tre elementi tipicamente fusi tra loro nello Stato nazionale: l’apparato statale, l’integrazione tra cittadini che condividono gli stessi valori e la garanzia costituzionale di un’autonomia pubblica e privata. Per comprendere le reali possibilità di attuazione di una tale proposta, tuttavia, bisogna partire dal diritto internazionale nella sua veste contemporanea, esaminando le tracce lasciatevi dal progetto di pace kantiano, attraverso le tappe rappresentate dalla conclusione delle due guerre mondiali e della guerra fredda. Il tentativo wilsoniano di dare concretezza alla Völkerbund kantiana attraverso la Società delle Nazioni ed il suo fallimento possono essere affiancati all’ironica contrapposizione esistente tra le innovazioni del diritto internazionale, come la nascita dell’ONU, i processi di Tokio e Norimberga, e la desolante prassi della guerra fredda a partire dal secondo dopoguerra. Anche in questo quadro non troppo ottimistico tuttavia vi è la speranza derivante dall’iniziativa di istituire tribunali per i crimini di guerra, nuovo avanzamento teorico e pratico della tutela dei diritti dell’uomo; proposito frenato tuttavia dai summenzionati fattori economici e politici sempre più complessi. E’ possibile in questo contesto una giuridificazione piena delle relazioni internazionali? Il liberalismo egemonico si cerca di costituire una base morale tramite l ’impresa collettiva di una 20 Jürgen Habermas, L’idea kantiana della pace perpetua, due secoli dopo, in L’inclusione dell’Altro. Studi di teoria politica, Feltrinelli, Milano, 2002, pp. 177-215 15 convergenza teorico-politica internazionale sul rule of law polisenso e quindi indeterminato. Questa opzione ha però mostrato le sue contraddizioni e risulta essere un’opzione destinata al fallimento. Le motivazioni empiriche di una tale presa di posizione: una volta definiti i mezzi più idonei al raggiungimento di una concreta condizione di pace nell’odierno contesto internazionale, appare evidente che questi strumenti sono più facilmente a disposizione in una società internazion ale collegata orizzontalmente ed effettivamente obbligata a cooperare, piuttosto che nell’unilateralismo di una potenza mondiale. Tuttavia ben più gravi sono le ragioni normative per cui un tale progetto sembra destinato a fallire: esse riguardano la stessa logica del discorso pratico, per cui una entità egemone (uno stato come gli USA o in futuro un organismo come l’ONU) animata da buone intenzioni è destinata a convivere con una possibile commistione dei propri interessi particolari con gli interessi generali che dovrebbe in linea di principio perseguire: in questo senso una dissonanza cognitiva verrebbe avvertita dagli stessi cittadini di una tale comunità politica. Un progetto ispirato a un kantismo consapevole resta dunque, a seguito di una tale conclusione, il più auspicabile anche nella situazione attuale, da considerarsi, come Habermas scrive nel saggio già citato «nell’ipotesi più ottimistica come una transizione dal diritto delle genti al diritto cosmopolitico» quando invece «molti segnali indicano invece una ricaduta nel nazionalismo»21. Lo spazio acquisito dagli strumenti di soft law mostra il ruolo crescente svolto dalla società civile, la capacità di quest’ultima di configurare la propria azione in senso transnazionale e tendenzialmente globale ed il tentativo, emergente del diritto internazionale pubblico di considerare direttamente la condotta di attori privati. Tutto ciò non necessariamente dovrebbe essere letto come uno dei segni di una sorta di neomedievalismo e potrebbe invece essere visto come il segno del riemergere dell’intrinseca razionalità del diritto, grazie alla quale proprio il diritto potrebbe assumersi il rinnovato prestigio necessario per affrontare questioni di portata globale e di organizzare una comunità giuridica al di là dei confini statali. In conclusione ci si trova dunque ad andare con Habermas contro Kant quando disegna un diverso assetto istituzionale per la democrazia cosmopolitica del futuro, ma contemporaneamente con Habermas e con Kant se si individua l’orizzonte futur o della convivenza umana nel superamento dell’odierno assetto dei rapporti internazionali in direzione di un diritto che valga perentoriamente a livello transnazionale. La nozione di governance, spesso associata agli strumenti di soft law, non deve diventare una maschera per l’incertezza, la frammentazione e l’incoerenza delle scelte normative, ma un modo nuovo, decentrato, di organizzare il potere e di aumentare la 21 Op. cit., p 195. 16 partecipazione a vari livelli. Del resto, non si può pensare di contrastare poteri diffusi semplicemente riproponendo un’idea astratta del diritto, e interpretando il concetto di rule of law in tal senso. Quello che ci sembra sensato proporre è piuttosto un prendere atto del processo di slittamento dalla territorialità alla funzionalità in atto nel diritto contemporaneo e tentare di orientare tale processo in modo che non induca uno slittamento dalla democrazia alla tecnocrazia. | URI : | http://hdl.handle.net/2307/637 |
Wuxuu ka dhex muuqdaa ururinnada: | X_Dipartimento di Diritto Europeo. Studi Giuridici nella dimensione nazionale, europea, internazionale T - Tesi di dottorato |
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