Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: http://hdl.handle.net/2307/6055
Titolo: Le misure alternative alle detenzione: anomalie del sistema e dei rilievi critici
Autori: Spagnuolo, Alessia Cristiana
Relatore: Mezzetti, Enrico
Parole chiave: MAAD
misure alternative alla detenzione
ordinamento penitenziario
Data di pubblicazione: 16-mag-2016
Editore: Università degli studi Roma Tre
Abstract: Già Cesare Beccaria, nel lontano 1764, aveva evidenziato come la legislazione rispondesse più alle ragioni delle contingenze storico-sociali che alla meditata riflessione di tecnici in ordine alle esigenze effettive della comunità, in un’ottica di sistema e lungimiranza. Nel suo capolavoro indiscusso, infatti, esordiva con la seguente considerazione: “Apriamo le istorie e vedremo che le leggi, che pure sono o dovrebbero essere patti di uomini liberi, non sono state per lo più che lo strumento delle passioni di alcuni pochi, o nate da una fortuita e passeggera necessità; non già dettate da un freddo esaminatore della natura umana, che in un sol punto concentrasse le azioni di una moltitudine di uomini e le considerasse in questo punto di vista: la massima felicità divisa nel maggior numero”. Tale riflessione, che vale ancora oggi in linea generale, è ancor di più attuale in un settore delicato come quello dell’ordinamento penitenziario, nel quale il Legislatore ci ha abituato all’adozione di periodici provvedimenti, ora volti ad impedire l’accesso alle misure alternative, attraverso l’inasprimento delle sanzioni edittali di alcuni illeciti o l’adozione di meccanismi preclusivi all’accesso dei benefici, ora a svuotare gli istituti carcerari, anche mediante il ricorso a procedure di indulgenza, al solo fine di migliorare le condizioni di vita dei detenuti. E ciò non senza una ragione. Ed invero, il problema principale che si è prospettato e che si prospetta tutt’oggi nella costruzione del sistema penitenziario consiste nel conciliare due esigenze contrapposte: mantenere l’ordine e garantire la sicurezza negli istituti di pena, da un lato, ed attuare la finalità rieducativa del trattamento penitenziario, dall’altro. Il sistema delle misure alternative alla detenzione sembra essere stato adottato – e modificato nel tempo – proprio per rispondere compiutamente alla necessità del contemperamento tra queste due esigenze. Da una parte, infatti, sono state elaborate una serie di misure volte a favorire, in presenza di particolari requisiti, la risocializzazione del detenuto attraverso un percorso rieducativo che possa svolgersi anche mediante attività aventi luogo all’esterno degli istituti di pena; dall’altro, sono stati adottati meccanismi preclusivi con riferimento all’accesso a tali misure nei confronti di alcune categorie di rei, considerati – evidentemente – non rieducabili o, comunque, non meritevoli della chance di reinserimento nella società. Il bisogno di sicurezza sociale ha finito, quindi, per giustificare in alcuni casi la selezione dei comportamenti criminosi e la conseguente classificazione dei nemici. Si parla di diritto penale del nemico o di diritto penale d’autore, quando si intende evocare che ciò che è punibile non è più il reato ma il reo e, nello specifico, per quello che è, e non per quello che fa. Su questa scia è stata promossa l’anticipazione della criminalizzazione a condotte lontane dalla lesione o messa in pericolo di un bene, nonché l’imposizione di pene ben lontane dall’idea della proporzionalità. Il fenomeno in questione, ricondotto alla cosiddetta giustizia emotiva, presenta non pochi problemi di compatibilità con i principi costituzionali di riferimento del sistema penale e, più in particolare, dell’ordinamento penitenziario. Ad essere criminalizzato, infatti, è un particolare status (come, ad esempio, quello di immigrato irregolarmente introdottosi nel territorio dello Stato), anche in assenza di condotte atte ad offendere qualsivoglia bene giuridico. Ancora, in ossequio alla stessa ratio, viene fortemente limitato, se non del tutto precluso, l’accesso alle misure alternative ad alcune categorie di rei, ora perché questi si sono macchiati di colpe particolarmente odiose (come in materia di reati sessuali), tali comunque da non considerarli “meritevoli” di accedere ai benefici penitenziari, ora perché i meccanismi prescelti per valutare l’idoneità degli stessi ai fini della concessione delle misure alternative sono talmente fumosi – nella loro formulazione legislativa – da non essere suscettibili di applicazione concreta. Col terribile paradosso secondo cui proprio coloro che sarebbero maggiormente bisognosi di un trattamento rieducativo ai fini del loro reinserimento sociale si vedono, di fatto, negare questa chance dall’ordinamento. Nel corso degli anni, il fenomeno in questione si è sviluppato non solo a causa dei provvedimenti legislativi emergenziali adottati per rispondere alle esigenze di sicurezza sociale, ma anche a cagione di alcuni orientamenti giurisprudenziali, di merito e di legittimità, che, hanno di fatto reso impossibile, ad alcune categorie di soggetti, l’accesso alle misure alternative alla detenzione, pur in assenza di espresse preclusioni stabilite dalla legge. Ciò è accaduto, ad esempio, in relazione alle ipotesi di ingresso irregolare dello straniero nel nostro Stato, categoria cui è stato per lunghissimo tempo negato l’accesso a tutte le misure alternative, sulla base del presupposto per cui la condizione di irregolare non avrebbe consentito la legittima permanenza del soggetto sul territorio nazionale nemmeno al fine di portare a termine il progetto rieducativo. É il caso, altresì, degli autori dei delitti in materia di violenza sessuale, per i quali la legge prevede un iter non solo particolarmente complesso, ma anche fumoso, tale da non essere concretamente praticato. É il caso, ancora, del soggetto condannato per il delitto di evasione, in relazione al quale viene di fatto negato anche il beneficio della liberazione anticipata, che è del tutto scollegato dall’ottica “meritocratica”, sul piano della condotta, cui soggiacciono tutte le misure alternative contemplate nella l. 354 del 1975. Alla luce di tali elementi, la scrivente si è proposta di analizzare lo stato dell’arte dell’attuale sistema dell’ordinamento penitenziario per svolgere una riflessione critica su come ed in che misura il principio rieducativo, così come pensato dai Padri Costituenti, venga adottato dal Legislatore e dalla giurisprudenza come cartina di tornasole nella difficile gestione del detenuto e dell’internato. Si è potuto osservare come, spesso, rispetto a rigidi automatismi normativi pensati per rispondere alle esigenze di particolari momenti storici, caratterizzati da un peculiare allarme sociale in relazione a specifiche figure di reato o categorie di rei, sia stato necessario l’intervento della Corte Costituzionale al fine di riaffermare la prevalenza che deve essere tributata, nel contemperamento con le esigenze general e special preventive, alla finalità rieducativa ed alla risocializzazione del reo. Molti interventi della Corte, invero, ad esempio in tema di recidiva o di diritto penale dell’immigrazione, sono stati finalizzati a far cadere il sospetto che, pur nella sua discrezionalità, il legislatore avesse creato delle preclusioni normative basate sul tipo d’autore, poiché costruite in modo del tutto scollegato dallo specifico fatto di reato commesso ed in assenza di qualsivoglia prognosi sul comportamento futuro del detenuto. Si è, altresì, evidenziato come nel corpo dell’ordinamento penitenziario vi siano ancora numerose cause ostative all’accesso ai benefici che appaiono ingiustificate ovvero, rectius, giustificate solo allorquando si ammetta che le esigenze di sicurezza sociale sono state ritenute, in quello specifico frangente, maggiormente meritevoli di tutela rispetto alla risocializzazione del detenuto. Si è rilevato, purtroppo, che in tali ipotesi o vi è stato un sostanziale disinteresse della Corte Costituzionale, individuato in quei casi in cui le corti territoriali hanno sollevato questioni di legittimità basate sulla pretesa violazione dell’art. 27 co. 3 Cost. (come nell’ambito dei cosiddetti reati di terza fascia, ex art. 4-bis ord. pen.), senza che si addivenisse ad una decisione sul merito della vicenda; ovvero un ingiustificato silenzio sia da parte del giudice delle leggi che della giurisprudenza di merito dei tribunali di sorveglianza (come nel caso del detenuto condannato per evasione). Con la conclusione, fondata sul personale convincimento di chi scrive, che evidentemente per tali categorie di detenuti l’espressione di un giudizio di meritevolezza ai fini della concessione dei benefici penitenziari risulta innegabilmente più agevole se fondato su presunzioni assolute di pericolosità in ragione del titolo di reato commesso. Inoltre, l’analisi delle modifiche normative susseguitesi in ambito penitenziario, anche aventi contenuto favorevole per i condannati - quando operanti un ampliamento delle ipotesi di accesso alle misure alternative o ad altre misure premiali ad esse equiparabili - ha consentito di constatare come le esigenze connesse alla gestione della problematica del sovraffollamento carcerario abbiano svilito a tal punto il principio rieducativo da consentire l’espiazione della pena al di fuori degli istituti anche a categorie originariamente pretermesse dall’accesso alle misure alternative. In tal modo sono state create delle situazioni di sostanziale discriminazione, poiché detenuti macchiatisi dello stesso illecito hanno potuto godere di agevolazioni differenti a seconda del tempus commissi delicti, atteso che i decreti cosiddetti “svuotacarceri” hanno sempre efficacia ed operatività limitate nel tempo. L’analisi condotta ha, quindi, consentito di appurare che nell’attuale sistema penitenziario vi sono ancora numerose zone d’ombra, nelle quali il rispetto della finalità rieducativa della pena nonché del principio di eguaglianza, nonostante i progressi fatti nel corso degli anni, cede ancora il passo alla cosiddetta giustizia emotiva ed a scontati automatismi volti ad impedire l’accesso ai benefici nei confronti di alcuni tipi di autore di fatti illeciti.
URI: http://hdl.handle.net/2307/6055
Diritti di Accesso: info:eu-repo/semantics/openAccess
È visualizzato nelle collezioni:Dipartimento di Giurisprudenza
T - Tesi di dottorato

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