Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: http://hdl.handle.net/2307/5998
Titolo: Interesse legittimo ed azione di adempimento
Autori: Jacinto, Francesco
Relatore: Corso, Guido
Parole chiave: Diritto amministrativo
azione adempimento
Interesse legittimo
Data di pubblicazione: 8-giu-2016
Editore: Università degli studi Roma Tre
Abstract: Rispetto a quanti, per primi, hanno affrontato il tema che ci occupa, l’odierno studio profitta del fatto che l’azione di adempimento ha trovato espressa menzione nel codice del processo amministrativo a seguito dell’adozione del secondo decreto correttivo, con conseguente rimozione di ogni dubbio in ordine alla sua ammissibilità, in precedenza affermata solo attraverso un significativo sforzo interpretativo proteso a ricavarla dal sistema. Nondimeno, la ricerca non può prescindere dalla valorizzazione di quelle elaborazioni dottrinali e giurisprudenziali che pur, in difetto di una previsione espressa, avevano concluso per l’immanenza nell’ordinamento processuale amministrativo di una modalità di tutela delle situazioni di interesse legittimo consistente nella condanna dell’Amministrazione all’adozione del provvedimento, prima richiesto infruttuosamente nel procedimento amministrativo, poi invocato in sede giurisdizionale. Ciò, in quanto tali elaborazioni si collocano a valle di un lungo percorso che, attraverso la progressiva implementazione delle tecniche di tutela azionabili avanti al giudice amministrativo, ha segnato, nella sostanza, la stessa evoluzione della nozione di interesse legittimo. Evidenziare come gli sforzi operati dalla giurisprudenza per ampliare gli spazi di protezione dell’interesse legittimo e l’apprezzamento circa l’effettiva consistenza di tale situazione sostanziale siano elementi che, negli anni, si sono condizionati vicendevolmente, è, appunto, l’intento dell’odierno studio. E’ così che la ricerca prende le mosse dal momento storico in cui l’interesse legittimo era stato espunto dal mondo delle situazioni soggettive dalla legge abolitrice del contenzioso, la cui ratio è enunciata, nel corso della discussione parlamentare, dal relatore del disegno di legge, quel Pasquale Stanislao Mancini che, rispetto alla posizione di chi avanzava istanze di protezione di interessi che si contrapponevano all’esercizio del potere pubblico, ebbe ad esporre la reazione dell’ordinamento, plasticamente sintetizzata nella celeberrima frase “che ei si rassegni”. Ebbene, in quel lontano 1865, il soggetto portatore di un interesse che era intercettato, a vario titolo, dal potere in attribuzione ad un’Amministrazione per la cura di un interesse 2 pubblico, doveva effettivamente rassegnarsi, in quanto sprovvisto di mezzi di tutela giurisdizionale, dovendosi necessariamente appellare unicamente ad un sistema di giustizia ritenuta all’interno della stessa Amministrazione. Alla base di tale scelta si poneva il condizionamento generato dal principio di separazione dei poteri dello Stato, secondo il quale il potere giurisdizionale non poteva invadere gli spazi propri del potere amministrativo con statuizioni che ne potessero condizionare l’esercizio. Il rapporto tra giurisdizione ed amministrazione è questione che, ancora oggi, dispiega i suoi effetti sul processo amministrativo e, in particolare, sul collocamento di quella “frontiera mobile” tra i due poteri, a seconda che si acceda ad una certa interpretazione della discrezionalità piuttosto che ad un’altra. Sicché, da quel lontano 1865, grazie all’azione certosina e paziente di dottrina e giurisprudenza, si è dipanato quel sottile fil rouge che ha segnato il progressivo incremento dei mezzi di protezione, sulla cui natura giurisdizionale, inizialmente, con l’istituzione della IV Sez. C.S., si è persino dubitato. Sennonché, la tutela di annullamento dell’atto, parsa una significativa conquista nel 1889, non tardò a rivelarsi insufficiente, tanto da richiedere, nel tempo, l’estensione a forme ulteriori, le quali, oltre a garantire la caducazione del provvedimento lesivo potessero contribuire a far sì che l’Amministrazione ne emanasse uno idoneo a soddisfare la situazione sostanziale riconosciuta meritevole di protezione dal giudice amministrativo. Ne derivò l’elaborazione del c.d. effetto conformativo della sentenza, declinabile tanto sotto forma di effetto ripristinatorio in virtù dell’espunzione dal mondo degli atti giuridici del provvedimento lesivo di un certo interesse protetto, quanto sub specie di effetto preclusivo verso la reiterazione di un provvedimento che recasse gli stessi vizi di quello caducato. Il punto è che né l’effetto ripristinatorio, né quello preclusivo riunivano la capacità di soddisfare quelle situazioni sostanziali che si atteggiavano quali interessi legittimi prentensivi, secondo la classificazione medio tempore effettuata dalla migliore dottrina. Se la situazione di interesse oppositivo poteva essere ritenuta soddisfatta con la rimozione dell’atto lesivo, quella di carattere pretensivo era destinata a rimanere frustata, sino a quando, in sede di riesercizio del potere, la PA non l’avesse gratificata appieno. 3 Ebbene, l’effetto conformativo è stato inteso come dovere per la PA di attenersi in sede di riedizione del potere alla regula iuris dettata dal giudice nel corpo alla sentenza. La sede in cui poteva esser coattivamente assicurata tale corrispondenza è stata individuata grazie all’introduzione del giudizio di ottemperanza. Il punto è che tale forma di giudizio di esecuzione, a differenza dell’omologo rito nel processo civile, risultava portatore di un vizio d’origine, ricevuto in eredità dalla natura impugnatoria e caducatoria posseduta dal giudizio di cognizione. Era ben possibile, infatti, che la sentenza di cui si chiedeva l’ottemperanza recasse una statuizione in merito ai vizi dell’atto riguardanti la lesione di interessi procedimentali, ovvero l’assorbimento degli altri motivi di ricorso una volta accolto uno di essi, con la conseguenza, in entrambi i casi, di un difetto di pronuncia sulla fondatezza della pretesa, dunque sull’effettiva consistenza della situazione sostanziale alla base della lite. Tutto ciò si traduceva in una sostanziale elusione del principio costituzionale dell’effettività della tutela, di cui all’art. 24, nella considerazione che, in estrema sintesi, la parte vittoriosa si ritrovava in possesso di un giudicato non suscettibile di un’esecuzione realmente satisfattiva. Il correttivo adottato per via pretoria è stato quello d’integrare la natura esecutiva del rito dell’ottemperanza con quei profili di cognizione necessari per riempire di contenuti dispositivi un giudicato che limitatosi al giudizio sull’atto, risultava incompleto e quindi inidoneo ad assicurare tutela alla situazione vantata nel rapporto. Non è mancato chi abbia negato la fondatezza dell’assunto secondo il quale il giudice dell’ottemperanza potesse estendere la sua giurisdizione alla conoscenza della situazione giuridica oltre il giudicato formatosi in sede di cognizione. In ogni caso, l’inattitudine della sentenza di annullamento nel soddisfare le posizioni riconducibili alla figura dell’interesse pretensivo e, dunque, l’intrinseca inidoneità satisfattiva della tutela caducatoria venivano corrette in ottemperanza, ma ciò con il pesante onere per il ricorrente vittorioso di dover intentare un secondo giudizio, non solo per ottenere l’esecuzione, ma, ancor prima, per vedersi riconosciuta la fondatezza della pretesa. Pur di fronte ad una soluzione comunque concepita per assicurare l’effettività della tutela, non si poteva non coglierne la sua asimmetria sistematica, se paragonata al modello della 4 giustizia civile, rispetto al quale la fase dell’esecuzione si traduce nell’attuazione di quell’assetto d’interessi configurato appieno nella pronuncia del giudice della cognizione. In punto di coltivazione dell’interesse pretensivo, la simmetria del processo civile non era realizzabile in carenza di un’azione che possedesse l’attitudine a dare luogo ad una pronuncia realmente satisfattiva, la quale non poteva che avere i tratti della condanna all’adozione del provvedimento utile a soddisfare la situazione dedotta in giudizio, perché frustrata da una reiezione da parte della PA competente. Un’azione ed una pronunzia di tale carattere non era concepibile in presenza di un’interpretazione rigida del principio di separazione dei poteri, in ragione del quale si riteneva preclusa al giudice la possibilità di penetrare la c.d. “riserva di amministrazione”. Per non ammettere una modalità di tutela che avrebbe comportato, in sede di cognizione, una statuizione di condanna dell’Amministrazione ad un facere pubblicistico, si edulcorava la vicenda contenziosa, rimettendone l’epilogo alla sede dell’ottemperanza, dove sostanzialmente si dava esecuzione ad un dispositivo “fantasma”, non apprezzabile ictu oculi, bensì medianicamente evocabile, ricorrendo alla soluzione dell’effetto conformativo. In realtà, si doveva prendere atto dell’incompletezza del sistema delle tutele e della natura posticcia della soluzione adottata. L’assenza dell’azione di condanna nel sistema delle tutele, quale fatto idoneo a produrre ulteriori distonie nel sistema stesso, è altresì apprezzabile guardando al modello dell’azione avverso il silenzio inadempimento. Di fronte all’inerzia dell’Amministrazione nell’esercizio doveroso del potere pubblico, meritoriamente, il legislatore ha inteso riconoscere al soggetto frustrato da tale contegno amministrativo la possibilità di ottenere una statuizione giurisdizionale che non solo accertasse l’obbligo di provvedere, bensì pronunziasse anche in merito alla fondatezza dell’istanza che lo spiegarsi di quella potestà pubblicistica aveva stimolato. Il punto è che siffatta previsione è divenuta occasione di ulteriori disallineamenti, avendo determinato l’effetto secondo il quale, ai fini della cura degli interessi pretensivi, il soggetto interessato finiva per godere di mezzi di tutela più ampi laddove l’Amministrazione fosse stata silente, piuttosto che nel caso in cui avesse adottato un provvedimento espresso di reiezione. 5 Nel primo caso, infatti, il soggetto leso avrebbe potuto ottenere in sede di cognizione una sentenza recante una statuizione espressa sulla fondatezza della pretesa, nel secondo la sola pronunzia di annullamento e l’aspettativa ad ottenere una pronuncia sul rapporto solo in sede di ottemperanza. A livellare tale situazione d’irragionevole squilibrio è intervenuta la giurisprudenza che ha interpretato la norma sul silenzio in modo restrittivo e, in particolare, nel senso che il giudizio sulla fondatezza assumesse rilievo solo in malam partem, ossia per escludere la declaratoria in sede giurisdizionale dell’obbligo di provvedere, in presenza di una pretesa ictu oculi inconsistente. Nondimeno, l’istituto ha avuto l’indubbio pregio di formalizzare il principio secondo il quale la separazione dei poteri non è un dogma assoluto, risultando suscettibile di quel temperamento indispensabile per soddisfare le istanze del privato, allorquando non residuino ragioni d’interesse pubblico perché debbano risultare frustrate. Ciò nella considerazione che il legislatore ha ammesso che il giudice amministrativo possa conoscere della fondatezza della pretesa in caso di potere vincolato ovvero di esaurimento della discrezionalità, cioè in tutte quelle circostanze in cui viene a mancare quel potere di scelta che costituisce l’essenza stessa della potestà amministrativa. Peraltro, è appena il caso di rammentare come siffatto modello sia stato integralmente utilizzato, attraverso un’operazione di rinvio, per dare fondamento all’azione di adempimento, all’atto del recepimento nel codice del processo amministrativo. Ritornando in dietro nel tempo, occorre dare conto di un ulteriore tentativo volto a colmare il vuoto di tutela in trattazione, che si è registrato all’indomani del recepimento in diritto positivo, ad opera della legge 205 del 2000, dell’azione di risarcimento del danno da lesione di interesse legittimo, ammissibile anche sotto la forma della reintegrazione in forma specifica. Ebbene, replicando le incongruenze interpretative sorte in sede civile nell’accomunare il rimedio risarcitorio della reintegrazione in forma specifica con l’azione di adempimento e con l’esecuzione forzata in forma specifica degli obblighi di fare, non fare e dare, con alterne fortune in dottrina e giurisprudenza, si è cercato di vedere in un’azione naturalmente riparatoria di un pregiudizio patito nel preesistente patrimonio del soggetto interessato, un rimedio volto a far sì che una prestazione ampliativa dell’altrui sfera giuridica, non ancora 6 resa, potesse entrarvi in virtù di una pronunzia di condanna, con l’incongrua conseguenza di sottoporre quest’ultima ai noti limiti di cui al combinato disposto degli artt. 2043 e 2058 c.c., coincidenti con la necessità di dover provare l’elemento psicologico del dolo o della colpa e con il rischio di vedersi riconosciuta una tutela risarcitoria per equivalente, piuttosto che la prestazione auspicata, perché ritenuta quest’ultima eccessivamente onerosa. Tale orientamento, fermamente censurato dal Consiglio di Stato, è stato l’ulteriore tentativo di superare l’horror vaqui dato dalla constatazione dell’inesistenza di un’azione idonea a soddisfare la lesione dell’interesse legittimo pretensivo, in presenza di una concezione generale del processo amministrativo che, sotto la spinta della sentenza n. 500 del 1999, da un modello di giudizio sull’atto stava migrando celermente verso quello del giudizio sul rapporto. Il punto è che tale vuoto non poteva che essere occupato dalla previsione dell’azione appropriata, non essendo più sostenibili i palliativi sin’ora richiamati. Nello stesso solco si colloca quell’orientamento giurisprudenziale che, prescindendo dalla previa emanazione di un atto amministrativo lesivo, ha ammesso la possibilità di esperire un’azione di accertamento circa la fondatezza della situazione sostanziale vantata dall’interessato rispetto al mancato esercizio di un potere di controllo da parte della PA in materia edilizia. L’accertamento operato nel processo rimaneva pur sempre uno strumento per ottenere protezione della sfera giuridica provocando il corretto svolgimento dell’azione amministrativa in virtù dell’effetto conformativo della sentenza. Tirando le fila di questa parte dell’opera, si osserva come il recepimento dell’azione di condanna all’adempimento pubblicistico, se, da un lato, certamente porta armonia nel sistema processuale amministrativo, evitando il ricorso a soluzioni non del tutto appropriate, bensì frutto di un adattamento alle istanze di tutela, dall’altro, generi importanti interrogativi sul piano sostanziale, i quali, a loro volta, sono destinati ad innescare nuove questioni processuali. In estrema sintesi, se esiste un’azione di adempimento a valle, deve preesistere a monte un obbligo suscettibile di essere conosciuto funditus dal giudice e di divenire oggetto di una statuizione di condanna. 7 Ebbene, è proprio la nozione di obbligo che potrebbe risultare incompatibile con quella di potestà, quale situazione soggettiva attiva attribuita dal legislatore alla PA per la cura dell’interesse pubblico. Nella considerazione che l’approdo ad un’azione di adempimento espressamente riconosciuta dall’ordinamento processuale amministrativo costituisce il precipitato dell’articolato processo testé descritto, attraverso il quale si è registrato un progressivo allineamento delle tecniche di tutela proprie del giudice amministrativo a quelle tipiche del giudice ordinario, è appunto alla più che consolidata esperienza della dottrina e della giurisprudenza civile che si deve guardare per studiare i caratteri dell’azione in rilievo e ricavare elementi indicativi circa la reale consistenza delle situazioni sostanziali con essa tutelabili. Se, dunque, una consistente parte della tesi si incentra sul processo, un’ulteriore parte nobile è dedicata allo studio delle posizioni giuridiche coinvolte dall’azione amministrativa. L’azione di adempimento diviene, quindi, occasione per indagare in ordine al reale assetto dei poteri pubblici ed alle loro effettive ricadute sulle posizioni del privato. Orbene, citando testualmente la migliore dottrina civilistica, mette conto evidenziare che “costringere all’adempimento significa costringere il contraente e/o l’obbligato ad eseguire quanto è oggetto del contratto e/o dell’obbligo e, rispettivamente, autorizzare l’avente diritto a pretendere tale adempimento … Ove un’obbligazione risulti inadempiuta e/o inesattamente adempiuta la situazione può essere così rappresentata: se l’avente diritto …abbia interesse ad ottenere quella specifica, esatta prestazione oggetto della propria aspettativa, opterà per l’adempimento in natura ” (Di Majo – La tutela civile dei diritti – pag. 279). Sono, dunque, chiari i presupposti sostanziali, affinché, nel processo, possa essere azionata la domanda di adempimento. In primo luogo, deve sussistere una previa obbligazione, in secondo luogo, deve essere accaduto che la prestazione, oggetto ex art 1174 c.c. di quella obbligazione, non debba essere stata resa, ovvero debba essere stata resa in forma gravemente inesatta. Di fronte a tale considerazione, non vi è chi non colga profili di possibile incompatibilità tra potestà ed obbligazione, tra adempimento ed esercizio di potestà pubblica. 8 Allora la circostanza che il legislatore abbia previsto un’azione di adempimento pubblicistica in presenza di potere vincolato, è forse spiegabile con l’argomento secondo cui, in realtà, lo stesso legislatore, attribuendo siffatto potere all’Amministrazione, in combinato disposto con l’obbligo di provvedere di cui all’art 2 della legge n. 241/90, abbia fondato un’obbligazione del tertium genus di cui all’art. 1173 c.c., in ragione della quale l’istanza proposta dal soggetto interessato nel rispetto dei parametri di legge costituisca quel fatto idoneo a produrre l’obbligazione in conformità dell’ordinamento giuridico ? Il punto è che tale conclusione, dotata di una logica apprezzabile, espone ad una significativa torsione l’intero sistema della giurisdizione amministrativa. In primo luogo, ritenere che ogni qualvolta il legislatore, nel vincolare integralmente l’esercizio del potere amministrativo e, conseguentemente, i contenuti del provvedimento, abbia in realtà fondato una disciplina in ragione della quale l’attivazione del procedimento da parte dell’interessato generi un’obbligazione, significa, necessariamente, ammettere che di procedimento ex lege 241 non si tratti e che la situazione azionata corrisponda ad un diritto soggettivo di credito. Di qui, in applicazione del noto criterio della causa petendi, si dovrebbe concludere che la controversia non verrebbe a ricadere nell’ambito della giurisdizione amministrativa, bensì sotto quella del giudice ordinario. In realtà, si contrappone a questa ardita conclusione la circostanza che l’azione di adempimento pubblicistica sia stata concepita dal legislatore del codice del processo come azione accessoria a quella di annullamento, che, come noto, è propria della giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo, preposta alla cognizione di controversie in materia di interessi legittimi. Sicché, per non tacciare la norma di recepimento di un’azione da tempo invocata da dottrina e giurisprudenza di illegittimità per irragionevolezza, ma soprattutto per contrasto con l’art. 103 Cost., che, prefigurando la distinzione tra diritti soggettivi ed interessi legittimi, fonda la cognizione del giudice amministrativo sui primi solo in sede di giurisdizione esclusiva, è d’obbligo ricercare un’interpretazione costituzionalmente orientata che riesca a dare razionalità al sistema, che, in estrema sintesi, riesca a far convivere potestà, obbligo ed adempimento. 9 In quest’opera, l’indagine non può prescindere da un approfondimento della ricerca nella direzione di qualificare adeguatamente le nozioni di potere vincolato e di potere discrezionale. Il concetto di discrezionalità implica quello della scelta più opportuna, nel caso concreto, per la cura dell’interesse pubblico, tra più soluzioni possibili, offerte da un ambito circoscritto da norme, e tenendo conto degli interessi in gioco. I criteri di gradazione della rilevanza degli interessi possono essere in quelle stesse norme o fissati da autorità in rapporto di sopraordinazione gerarchica o direzionale. La discrezionalità è, dunque, una “ponderazione comparativa di più interessi secondari in ordine ad un interesse primario”, che si atteggia come l’agire libero della PA, quando si pone come autorità e cioè quando l’agire è funzione e si esprime attraverso la potestà, però, non sempre discrezionale. La dottrina contrapponeva la discrezionalità alla vincolatezza, ritenendo questa la normalità dell’attività amministrativa, in ossequio al principio di legalità. In realtà, per i provvedimenti amministrativi la discrezionalità è il paradigma normale. Accade, però, che la discrezionalità abbia momenti vincolati, anche quando risulti ampia. Pare necessario riferire sul punto in cui si innesta un momento di fibrillazione della teorica, perché si assiste a confusione tra situazioni attive e passive, dal momento che, di fronte alla potestà, si colloca la soggezione che è situazione giuridica passiva, la quale consiste nel dover patire le altrui scelte unilaterali, mentre l’interesse legittimo pretensivo ricava dalla potestà pubblicistica l’ampliamento della sfera giuridica del suo titolare, quindi è posizione giuridica attiva. Allo stesso modo, l’interesse oppositivo è situazione attiva che si oppone alla potestà ablatoria, che incontra il limite del dovere di astensione dal turbamento che non sia autorizzato dalla legge. In estrema sintesi, l’interesse legittimo è la situazione sostanziale che si confronta con il pubblico potere, indipendentemente dal fatto che esso si caratterizzi per il requisito della discrezionalità, è la posizione soggettiva che nasce dai limiti legali posti dall’ordinamento per l’esercizio dei pubblici poteri. 10 Osserva, infatti, GIANNINI “L’interesse legittimo serve a contenere l’esercizio delle potestà (è indifferente che siano pubbliche o private) nei limiti della norma: è in funzione del fatto illegittimo, non del fatto illecito”. La potestà è, comunque, una situazione complessa, perché ad essa accedono diritti soggettivi o potestativi, o anche doveri ed obblighi, a seconda della natura degli interessi che l’ordinamento ha inteso tutelare. Infatti, con la locuzione “potere – dovere”, si indicano due distinti fenomeni: il dovere concorre con una potestà (di qui la “potestà ad esercizio necessario”) e l’obbligo che nasce dall’esercizio di una potestà. Proprio nel cuore della questione che ci occupa si innesta una corrente di pensiero che, anche sulla spinta dell’ordinamento comunitario, ha dubitato sulla reale fondatezza della nozione d’interesse legittimo. Del resto, anche Mario Nigro, nell’opera “E’ ancora attuale una giustizia amministrativa” (p. 255), aveva colto “un mutamento di natura dell’interesse legittimo che, progressivamente e soprattutto in alcune materie, sta assumendo la figura di un diritto di credito, ma non già, secondo note vedute, di credito alla legittimità dell’azione amministrativa, bensì di credito ad una concreta utilità; sta diventando un vero e proprio diritto soggettivo”. La teorica dell’interesse legittimo quale specie particolare diritto di credito è stata sviluppata dalla scuola fiorentina (ORSI BATTAGLINI – FERRARA), la quale è approdata alla conclusione “se l’interesse legittimo è una situazione giuridica attiva, a esso non può essere contrapposta una posizione di potere, parimenti attiva, bensì una situazione di obbligo”. Sicché, Leonardo Ferrara dalla natura di diritto di credito dell’interesse legittimo ricava, quali “implicazioni necessarie”, la condanna, tramite reintegrazione in forma specifica e l’esecuzione tramite l’ottemperanza. Ebbene, di fronte all’assunzione di una certa consistenza dell’orientamento che intende qualificare l’interesse legittimo come una particolare forma di diritto soggettivo, non si può non guardare all’ordinamento tedesco che conosce la categoria del “diritto pubblico soggettivo”, quale situazione sostanziale che attribuisce al soggetto interessato la facoltà di pretendere dall’Amministrazione un fare, un non fare o un sopportare, e soprattutto vi offre tutela per mezzo dell’azione di adempimento, la Verpflichtungsklage. 11 Per evitare l’istaurazione ed il consolidamento d’incertezze interpretative, è d’obbligo chiarire come nell’ambito di tale categoria di “diritti soggettivi pubblici” ricadano anche quelle situazioni che nel nostro ordinamento avrebbero consistenza d’interesse legittimo. Lo si ricava dalla previsione contenuta nella legge processuale amministrativa tedesca, nella quale è vero che, a fronte della richiesta di adempimento “nella misura in cui il rifiuto o l’omissione dell’atto amministrativo è illegittimo”, il giudice può emettere una sentenza di condanna nei confronti della PA a “porre in essere la richiesta attività dell’ufficio”, ma ciò soltanto “se la questione è matura per la decisione”, nella considerazione che, diversamente, “dichiara l’obbligo di decidere nei confronti nel rispetto della concezione giuridica del tribunale”. Seppur con espressioni diverse, la medesima regola processuale è rinvenibile nel corpo dell’art. 31, c. 3, cpa, allorquando recita che “il giudice può pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio … quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall’amministrazione”. Se, dunque, il giudice, tanto nel sistema tedesco, quanto in quello italiano, conosce di un rapporto giuridico di cui non può apprezzare appieno il definitivo assetto, ciò sta a significare che esso è riservato al potere discrezionale dell’Amministrazione. Sicché, la situazione sostanziale in capo al soggetto privato può ben essere chiamata diritto soggettivo (lo stesso SCOCA lo ammette nell’opera “Attualità dell’interesse legittimo”, a condizione di considerarlo comunque un diritto soggettivo particolare), ma senza che ciò la spogli della sua natura di posizione soggetta alla scelta discrezionale dell’Amministrazione. Nondimeno “La teoria dei diritti pubblici soggettivi” aiuta la ricerca, fornendo un’interessante chiave di volta, nella considerazione che Santi ROMANO, ispirandosi alla dottrina tedesca, ma con significativi tratti di originalità, ne ha individuato il fondamento nella “cosciente autolimitazione dello Stato”. In particolare significativi spunti nella materia dei diritti soggettivi pubblici provengono anche dal grande CAMMEO, il quale conferma la validità del sistema nazionale di ripartizione delle situazioni sostanziali, tra diritti soggettivi ed interessi legittimi. Si deve dunque valorizzare la natura anfibia delle posizioni giuridiche soggettive sopra menzionata. 12 Ragionando con riferimento alla situazione corrispondente all’interesse pretensivo, osserviamo come essa conosca, nello stesso tempo, della soggezione al potere pubblico, perché, senza l’intermediazione del potere pubblico, l’interessato non può godere del bene della vita auspicato, e della pretesa, nei confronti di quello stesso potere pubblico, del rispetto dei limiti legislativi posti per il suo esercizio, da cui quello stesso interessato ricava l’immissione nel bene della vita. Dunque, la Amministrazione possiede la potestà di riconoscere il titolo per il godimento del bene della vita, ma è insieme soggetta all’obbligo di conformare il suo esercizio ai contenuti del paradigma normativo. L’obbligo, in quanto tale, laddove disatteso è suscettibile di essere oggetto di una pronuncia di condanna. Se il paradigma normativo riconosce la pari validità di più soluzioni, la PA risulterà intestataria di un potere discrezionale, ricadendo la sua scelta nel merito amministrativo, vera area di insindacabilità ad opera del potere giurisdizionale, per la contestuale assenza di un obbligo. Viceversa, se il potere in attribuzione ha natura vincolata, l’area di soggezione all’obbligo del rispetto della legge risulterà dilatata sino ad abbracciarne l’intero esercizio. L’obiezione che può derivare è che l’eterointegrazione integrale del perimetro del potere pubblico ad opera della legge farebbe insorgere una vera e propria posizione di diritto soggettivo perfetto. Per confutarla è necessario ricorrere al concetto di discrezionalità, intesa dal Giannini come combinazione di giudizio e volontà. Ebbene, in occasione dell’esercizio del potere vincolato, in realtà, viene a mancare unicamente il profilo della volontà, integralmente precostituito dal legislatore, ma rimane quello del giudizio, o più precisamente dell’accertamento dei presupposti, comunque rimesso all’Amministrazione per la tutela dell’interesse pubblico, che Cammeo ritiene elemento qualificante dei rapporti di diritto pubblico che “intercedono fra subbietti di valore sociale ben diverso”. A ben vedere, nessuna forma di potere vincolato può prescindere dall’esercizio di discrezionalità nella fase del giudizio, solo che non si tratterà della discrezionalità di tipo gianniniano, cioè di una ponderazione d’interessi, bensì della discrezionalità concepita da 13 Costantino Mortati di “interpretazione e specificazione della norma”, che, a ben vedere, finisce per coincidere con la discrezionalità interpretativa di concetti giuridici indeterminati, concetto elaborato dalla dottrina tedesca, ovvero con la discrezionalità tecnica quando l’accertamento dei presupposti, comporti l’applicazione dei criteri propri di discipline tecnico – scientifiche. La conclusione a cui si perviene è che, pur di fronte ad una formula che ammette l’azione di adempimento rispetto al potere vincolato, la situazione soggettiva che ne legittima l’esperimento rimane d’interesse legittimo, ricorrendo sempre una potestà in capo all’Amministrazione che si traduce nel giudizio in merito alla ricorrenza dei presupposti per il rilascio del provvedimento. L’emanazione del provvedimento rimane sempre momento di cura dell’interesse pubblico, il cui apprezzamento è riservato all’Amministrazione quale speciale soggetto dell’ordinamento.
URI: http://hdl.handle.net/2307/5998
Diritti di Accesso: info:eu-repo/semantics/openAccess
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T - Tesi di dottorato

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