Please use this identifier to cite or link to this item: http://hdl.handle.net/2307/5202
Title: Il lucro cessante nella responsabilità extracontrattuale
Authors: Pellegrini, Tommaso
Advisor: Grisi, Giuseppe
Keywords: danno
lucro cessante
risarcimento
Issue Date: 18-May-2015
Publisher: Università degli studi Roma Tre
Abstract: Nel 1932 Alessandro Graziani introdusse il suo “appunti sul lucro cessante” con queste parole: «la dottrina ha svolto con particolare ampiezza di indagini il tema del risarcimento del danno; ma nella trattazione rimangono ancora alcuni aspetti non del tutto illustrati e vagliati; e ciò sia perché non venne talvolta loro attribuita quell’importanza che essi hanno per una completa conoscenza dell’istituto dal punto di vista teorico e dal punto di vista pratico; sia perché talvolta prevalse il convincimento che essi non involgessero questioni di diritto bensì esclusivamente questioni di fatto, da lasciarsi completamente al criterio discretivo del giudice». Poter qui, dopo 83 anni, utilizzare le stesse parole per introdurre questo studio pone in rilievo un primo dato significativo, ossia la perdurante ritrosia della dottrina nel riconoscere al lucro cessante la dignità di autonome considerazioni, ritrosia che rende inevitabile interrogarsi sull’utilità di questo lavoro, perché per quanto può essere stimolante occuparsi di un tema tendenzialmente ignorato, nessuna persona di buon senso può sfuggire al sospetto che tale disinteresse sottintenda una reale inconsistenza: se sul lucro cessante è stato scritto poco, un motivo potrebbe pur esserci. Ed il motivo potrebbe essere che il lucro cessante non è niente di poi così diverso dal danno emergente con cui si unisce per divenire il danno tout court, e sul danno la bibliografia è oramai sterminata. Certo il danno emergente viene descritto come un “meno” e il lucro cessante come un “mancato più”, ma la distinzione è per l'appunto descrittiva – «un mero rimando fattuale ad idee economiche elementari», è stato scritto – ed è per tanto inutile attardarsi troppo ad indagarne l’ontologia. Quanto detto può oggi considerarsi l’espressione di una dottrina, dottrina che potremmo definire riduzionista o negazionista (capitolo 1, paragrafo 1), riduzionista perché riduce il lucro cessante al danno, negazionista perché tale riduzione ad altro non porta se non al negare l’esistenza della categoria “lucro cessante” e per quanto gli esponenti di questa dottrina non siano poi così numerosi, l’adesione implicita ad essa sembra ampia al punto da poter essere considerata pacifica. Eppure il secondo comma del 2056, a mente del quale «il lucro cessante è valutato dal giudice con equo apprezzamento delle circostanze del caso», introduce una disciplina differente tra il danno emergente ed il lucro cessante, e se esiste una disciplina differente per le due voci di danno, inevitabilmente la distinzione tra queste non potrà considerarsi meramente descrittiva. Parallela alla tesi riduzionista corre un’interpretazione abrogante del secondo comma del 2056 che vede nell’equo apprezzamento nella valutazione del lucro cessante nulla più che l’equità nella determinazione d’un danno incerto nel quantum e, se così è, la norma appare come una ripetizione del 1226 – che alla materia si applicherebbe comunque per via del rinvio operato dal primo comma del 2056 – ripetizione per altro fuorviante, poiché totalmente infondata sarebbe l’attenzione riposta dall’ordinamento al lucro cessante extracontrattuale: anche il lucro cessante contrattuale riceverebbe, difatti, la stessa sorte, sorte in alcun modo distinguibile da quella del danno emergente. Avevamo appena detto dell’ampio consenso implicito che la dottrina riduzionista riceve, il successo dell’interpretazione ora proposta del secondo comma del 2056 può considerarsene una manifestazione. Quest’interpretazione poggia sull’immedesimazione tra lucro cessante e danno incerto, un’idea già diffusa ai tempi dei glossatori del diritto intermedio e ripresa anche nei lavori preparatori del codice. Nel corso della tesi si tenterà di confutare questa immedesimazione, o, perlomeno, si cercherà di porre in rilevo alcune ricadute sistematiche, sottovalutate dalla dottrina riduzionista, che – indipendentemente dalla loro accettabilità o meno – problematizzano la materia al punto da incoraggiarne altre letture (capitolo 3, paragrafo 2). 2) Esistono «premesse non dichiarate, ma tuttavia operanti, dietro argomentazioni che si presentano come mere deduzioni logiche»: in questo solco abbiamo ritenuto fruttuoso muovere i nostri argomenti. La tesi che proponiamo sul lucro cessante extracontrattuale poggia innanzitutto sulla definizione di questo come un valore d’uso non introiettato nel valore di scambio e riteniamo che tale definizione sia identica all’identificazione, in voga nel diritto intermedio, tra lucro cessante e danno all’interesse singulare. Occorre infatti premettere che generalmente il valore d’uso diviene il valore di scambio; quest’ultimo, d’altronde, altro non è che una generalizzazione delle utilità che da un bene possono trarsi, una generalizzazione di valori d’uso. Può però accadere che un valore d’uso non entri a strutturare il valore di scambio. Ciò accade quando l’utilità che un singolo soggetto trae da un bene non viene condivisa al punto da non venir presa in considerazione nella generalizzazione del suo valore di scambio (capitolo 3, paragrafo 5.2). In tal senso il valore d’uso che non entra nel valore di scambio può considerarsi un valore “particolare” o, come avrebbero detto i commentatori: singulare. Che al lucro cessante risarcibile sia sottesa tale logica è ben dimostrato dal fatto che il valore di mercato di un bene riconosciuto socialmente come produttivo viene calcolato sulla potenzialità di guadagno che nel bene stesso può intravedersi, cosa che trasforma, in caso di danno, questo guadagno futuro, che ben sarebbe potuto essere un lucro cessante, in danno emergente. L’unico spazio effettivo di risarcibilità del lucro cessante si ha, dunque, nel caso in cui questo lucro sia, nel senso che verrà spiegato, particolare. Posta questa base, una nuova ratio viene qui ipotizzata per il secondo comma del 2056: la discrezionalità che al giudice viene riconosciuta ad altro non mira se non ad introdurre un giudizio di “rilevanza sociale” del valore d’uso, giudizio superfluo in tema di danno emergente che in sé trova il suo riconoscimento sociale cristallizzato nella dinamica con cui il mercato assegna i valori alle cose (capitolo 3, paragrafo 5.3). Si è ritenuto poi di poter scorgere la medesima ratio in quel giudizio di non eccessiva onerosità cui il 2058 sottopone l’ammissibilità del risarcimento in forma specifica (capitolo 3, paragrafo 5.5). Questo, infatti, che permetterebbe, astrattamente, il ripristino dei valori d’uso indipendentemente dalla loro generalizzabilità, grazie proprio alla discrezionalità sottesa all’eccessiva onerosità nega la risarcibilità di quei valori d’uso singolari al punto da non essere riconosciuti e, pertanto, può anche qui intravedersi operare quello stesso giudizio di “rilevanza sociale” del valore d’uso che abbiamo ipotizzato per il 2056 secondo comma. Se così è, emerge una direttrice comune all’intero sistema del risarcimento, direttrice che vuole i valori d’uso risarciti sì, ma proporzionalmente alla loro riconoscibilità, dove il tutto potrebbe essere descritto come una valutazione del danno extracontrattuale che non è né – come alcuni ritengono – una aestimatio rei, né – come ritenuto da altri – un id quod interest, bensì un’aestimatio rei integrata con quel poco di id quod interest che supera il vaglio di “riconoscimento”. 3) Quanto ora proposto enuclea gli snodi argomentativi presenti nel capitolo terzo, ed in particolare dal paragrafo 3.5.1. al paragrafo 3.5.5. Questo capitolo viene preceduto dall’analisi del lucro cessante contrattuale, analisi utile sia per introdurre alcuni argomenti riutilizzati poi sul tema del lucro cessante extracontrattuale, sia per marcare la distinzione tra il lucro cessante contrattuale e il lucro cessante extracontrattuale (capitolo 3, paragrafo 5.4.), distinzione direttamente riconducibile alla valorizzazione della più generale distinzione tra danno contrattuale e danno extracontrattuale e, perciò, in aperto contrasto con la c.d. “concezione unitaria del danno”, secondo alcuni fatta propria dal legislatore con il rinvio operato dal primo comma del 2056. Se non si condivide l’interpretazione abrogante del 2056 secondo comma, diviene scontato porsi il problema del perché il lucro cessante trovi, a seconda del contesto in cui si manifesta, contrattuale o extracontrattuale, una differente disciplina. Sul punto si è ritenuto imprescindibile vagliare l’effettiva consistenza del 1225 – non richiamato dal primo comma del 2056, e perciò possibilmente connesso con il secondo comma del 2056 – e, per una serie di argomentazioni difficilmente riproponibili in maniera sintetica, che trovano comunque l’avallo di parte della dottrina, dietro a quel giudizio di prevedibilità con cui il codice seleziona le conseguenze risarcibili dell’inadempimento non doloso, si è scorto null’altro che l’emersione, in sede di risarcimento, d’un interesse definibile “contrattuale”, ossia l’interesse condiviso dalle parti che non si risolve nel solo valore della prestazione, e non si risolve neanche nell’interesse del creditore al ricevere la prestazione, ma è un interesse per così dire “dialettizzato”, che permette l’ingresso nel risarcimento dei c.d. danni consequenziali e, al contempo, limita il risarcimento al danno valutabile ex ante dal debitore (capitolo 2, paragrafo 1.). Se così è, non può esistere in sede contrattuale un danno all’interesse singulare del creditore, o meglio può esistere ma non sarà questa la caratteristica rilevante per il giudizio di risarcibilità, poiché la relazione che sta alla base del contratto assorbe l’ipotetica valutazione sociale della prestazione e consegna ad ogni contratto “il suo valore” e ciò fa si che, in altre parole, il giudizio di “rilevanza sociale” che abbiamo ritenuto di scorgere nel 2056 secondo comma è di certo fuori luogo in una materia in cui il 1225 relativizza il valore dell’utilità. Prima del lucro cessante contrattuale, dopo l’esposizione della tesi sopra definita riduzionista, si proporrà un inquadramento generale della disciplina del risarcimento, inquadramento che in parte mira ad enucleare alcune aeree problematiche che il resto dello studio si propone di indagare e in parte giustifica l’angolo di visuale, come anticipato incentrato sul valore, che verrà adottato. 4) Se comunque dovesse tentarsi una sintesi del lavoro, ancora più stringata di quella adesso proposta, basterebbe prendere le mosse dal titolo che a questa tesi si è dato: il lucro cessante extracontrattuale, un titolo che, a mo’ di premessa, contiene in sé le due semplici conclusioni che ci siamo proposti, fin dall’inizio, di raggiungere: il danno emergente è diverso dal lucro cessante, il danno contrattuale è diverso dal danno extracontrattuale.
URI: http://hdl.handle.net/2307/5202
Access Rights: info:eu-repo/semantics/openAccess
Appears in Collections:Dipartimento di Giurisprudenza
T - Tesi di dottorato

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