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http://hdl.handle.net/2307/40562
Title: | I DIVIETI PROBATORI NELL'ESPERIENZA TEDESCA ED ITALIANA | Authors: | Garofalo, Giulio | Advisor: | Marafioti, Luca | Issue Date: | 5-Mar-2018 | Publisher: | Università degli studi Roma Tre | Abstract: | La comparazione fra Italia e Germania sul tema dei divieti probatori appare, prima facie, infruttuosa. Il sistema tedesco, infatti, non prevedendo una clausola generale di inutilizzabilità delle prove vietate, affida la gestione sanzionatoria conseguente alla lesione di un divieto probatorio ad una valutazione casistica, fondata sul bilanciamento nel caso concreto fra l’esigenza dell’accertamento veritiero dei fatti penalmente rilevanti e la tutela di beni con essa in contrasto. In questo contesto, la questione dell’utilizzo o meno di una determinata prova assunta contra legem non trova una soluzione univoca, ma risulta connessa ad esigenze sostanziali, quali la gravità del reato da perseguire, il grado della violazione normativa, la decisività della prova, il rango del bene giuridico intaccato. La violazione di un divieto di acquisizione probatoria (Beweiserhebungsverbote), pertanto, non comporta tout court l’attivazione di un corrispondente divieto di utilizzazione (Beweisverwertungsverbote) della stessa. Il sistema italiano prevede, invece, una norma generale, l’art. 191 c.p.p., che, nello stabilire l’inutilizzabilità delle prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge, affida ad un automatismo normativo il trattamento sanzionatorio conseguente alla violazione di un divieto di acquisizione della prova. La riconduzione dell’inutilizzabilità al fenomeno delle invalidità degli atti a contenuto probatorio produce l’ovvia conseguenza che, almeno in linea di principio, nessuna valutazione giudiziale legata al bilanciamento fra esigenze contrastanti o alle peculiarità del caso concreto risulti ammissibile, poiché ogni divergenza dell’atto concretamente compiuto rispetto al modello legale dovrebbe comportarne l’imperfezione e, quindi, l’inefficacia. Se, tuttavia, l’assenza di una clausola simile a quella dell’art. 191 c.p.p. non ha precluso, finanche nell’esperienza giuridica tedesca, di arrivare a sostenere l’inammissibilità della prova come effetto intrinseco della violazione di un divieto di acquisizione probatoria, occorre segnalare, per altro verso, che la previsione di una norma espressa, idonea ad individuare una volta per tutte la reazione dell’ordinamento contro la violazione di un divieto probatorio, non ha impedito, proprio nel sistema italiano, il proliferare di approcci interpretativi di chiara impronta antiformalistica, che hanno indebolito l’effetto dirompente della nuova norma. La reazione giurisprudenziale e dottrinale alla pretesa rigidità del sistema probatorio italiano si è sviluppata, prevalentemente, lungo due direttrici. In primo luogo, verso la riduzione, a monte, del campo dei divieti probatori, mediante il disconoscimento dei divieti “indiretti” o “impliciti”, di quelli “costituzionali”, di quelli “extraprocessuali” e di quelli attinenti al quomodo della formazione della prova, con il precipuo effetto di sottrarre il regime giuridico dell’atto compiuto allo spettro operativo della nuova sanzione. In secondo luogo, ha prodotto un’evidente mitigazione, a valle, dell’art. 191 comma 2 c.p.p., che espressamente considera l’inutilizzabilità rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento, mediante la creazione di inediti fenomeni di sanatoria o la previsione di limiti di deducibilità non contemplati dalla norma. Orientamenti esegetici di questa natura hanno, così, concorso a ridefinire gli assetti dell’intero diritto delle sanzioni probatorie, rendendo l’ordinamento italiano, di fatto, un sistema aperto, al pari di quello tedesco, a valutazioni giurisprudenziali fondate su giudizi di valore. Da questo punto di vista, nel nostro sistema sembra manifestarsi chiaramente quella tendenza antiformale, più che antiformalistica, già denunciata dalla dottrina sotto la vigenza del vecchio codice che, oggi come allora, si ancora ai medesimi parametri culturali di riferimento, legati, in particolare, alla necessità di raggiungere la verità materiale. La pretesa possibilità di ottenere una simile forma di accertamento del reale sembra, pertanto, condurre alla stessa ribellione alla regola da parte del giudice, alla ricorrente tentazione all’utilizzo di mezzi istituzionalmente proibiti, portando ad assimilare la figura del giudice a quella del libero ricercatore della realtà, all’elusione delle norme di esclusione della prova, al recupero e all’utilizzazione delle prove illegittimamente acquisite, alla sopravvalutazione del libero convincimento del giudice. Oggi come allora, il metodo probatorio codificato non sembra aver costituito un presidio sufficiente ad arginare deviazioni ed inottemperanze alle regole, in nome di una cultura che – per dirla con la dottrina - continua ad ignorare il valore contenutistico del formalismo, inteso come complemento inseparabile della libertà dell’individuo. | URI: | http://hdl.handle.net/2307/40562 | Access Rights: | info:eu-repo/semantics/openAccess |
Appears in Collections: | Dipartimento di Giurisprudenza T - Tesi di dottorato |
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