Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: http://hdl.handle.net/2307/40394
Titolo: Seggi aperti alle donne? Le norme di democrazia paritaria nella rappresentanza politica
Autori: Maestri, Gabriele
Relatore: Bonfiglio, Salvatore
Parole chiave: DEMOCRAZIA PARITARIA
PARI OPPORTUNITA'
QUOTE
Data di pubblicazione: 10-apr-2018
Editore: Università degli studi Roma Tre
Abstract: Nel nostro Paese l’elettorato – attivo e passivo – è stato attribuito alle donne con notevole ritardo rispetto ad altri Stati. Alle cicliche richieste di estensione del diritto da parte delle donne, che avevano colto pienamente il legame biunivoco e “ad alimentazione continua” tra diritti (politici, ma non solo) e dignità umana, si era opposta per decenni la diversa visione di gran parte dei cittadini maschi (soprattutto la quasi totalità dei pochi che, all’inizio, era ammesso al voto da un suffragio ristretto su base censitaria). Il conflitto sembrava prodursi soprattutto tra l’ordine e l’orizzonte politico che alcune donne immaginavano e rivendicavano per sé (quale eguaglianza di trattamento e pari possibilità di partecipare) e l’ordine e l’orizzonte (sostanzialmente a-politico, separato dalla sfera politica per la differenza originaria «di condizioni e quindi di uffici corrispondenti», come si legge in un atto parlamentare del 1880) che alle stesse donne erano invece pervicacemente assegnati dagli uomini, a volte anche sulla semplice base dei costumi del tempo. Un conflitto insanabile, questo, in un tempo in cui il principio di eguaglianza era sì codificato dall’art. 24 dello Statuto, ma la forza delle eccezioni – anche quando a stabilirle non era una legge, com’è avvenuto con l’esclusione non scritta delle donne dal voto politico – sembrava maggiore rispetto a quella della regola. Dopo numerosi rinvii e prese in considerazione (e dopo la “beffa” del suffragio amministrativo limitato, esteso ad alcune categorie di donne con la legge n. 2125/1925, mai applicata per l’entrata in vigore dell’ordinamento podestarile), si è dovuti passare attraverso la devastazione delle due guerre mondiali e attendere l’impegno (sociale e politico) della seconda ricostruzione perché la cittadinanza politica delle donne fosse piena. Ottenuto il suffragio universale e la titolarità in capo alle donne dell’elettorato attivo e passivo, tuttavia, la logica conflittuale non è scomparsa dal terreno della rappresentanza politica: essa ha solo mutato forme. Se dall’inizio fu notevole la partecipazione femminile al voto e certe donne, candidatesi, riuscirono ad accedere a cariche di rilievo (a livello nazionale o locale), si vide subito che non era sufficiente attribuire l’elettorato alle donne perché le stesse approdassero automaticamente alle assemblee elettive o a cariche di vertice. Ciò è accaduto praticamente in ogni settore della vita sociale, economica e lavorativa (e, in un certo senso, anche culturale) e non solo in Italia (si pensi al concetto di “soffitto di cristallo” coniato soprattutto con riferimento al mondo del lavoro); ancora oggi, però, la rappresentanza politica sembra almeno parzialmente affetta da questi problemi (come testimoniato da un’analisi in chiave storica della presenza femminile in Parlamento, ben minore rispetto alla percentuale di donne nella società italiana, o dalla scarsa e rara presenza di donne tra le cariche istituzionali di maggiore rilievo). Al di là dell’osservazione tradizionale (solo in parte fondata e riconosciuta da autorevoli voci femminili) in base alla quale “neppure le donne votano per le donne”, i problemi stavano soprattutto “a monte”, almeno a tre livelli: a) nella visibilità minore delle candidate in campagna elettorale (specie nella comunicazione sui mass media); b) nella loro scarsa presenza tra le candidature delle singole forze politiche (per la decisione dei partiti di candidare poche donne); c) nell’assoluta predominanza maschile nei ruoli e degli organi apicali dei partiti stessi. In ciascuno di questi tre momenti, si è consumato e in parte ancora si consuma un conflitto di due diversi ordini politici ma soprattutto di due diversi approcci, non riducibili a una dinamica di scontro tra uomini e donne (che peraltro non sono categorie compatte e omogenee). Da una parte, le donne escluse dal circuito della rappresentanza desideravano e desiderano entrarvi, ottenere spazi nella sfera pubblica, politica e istituzionale per portarvi le proprie istanze nel modo da loro ritenuto più opportuno (pronte a denunciare gli ostacoli concreti e “pratici” incontrati nel loro cammino verso le istituzioni); dall’altra, alcuni uomini già all’interno del circuito della rappresentanza (magari entrati lì con fatica) possono vedere l’orizzonte e gli obiettivi delle donne come deviazioni rispetto al loro orizzonte e ai loro obiettivi o addirittura come una minaccia (“per ogni donna che conquista un posto, c’è un uomo che si deve alzare”). Tutti questi fenomeni, non ridimensionabili come semplici questioni sociologiche o antropologiche, hanno profonde ricadute di natura costituzionale: la formazione del personale politico, l’individuazione di chi si candida e viene successivamente elett* influisce profondamente sul livello di democraticità del sistema, sulla formazione e funzionamento degli organi costituzionali. Si è di fronte a una questione di qualità della democrazia e delle sue decisioni: essa costringe a ripensare l’equilibrio di genere di un’assemblea elettiva come condicio sine qua non per assicurare la reale rappresentatività di quest’ultima e a ritenere segno e frutto di un «cattivo funzionamento della democrazia» la scarsità delle donne nelle istituzioni, a fronte del loro non essere minoranza né subcultura nella società (cfr. C. MANCINA, Oltre il femminismo. Le donne nella società pluralista, il Mulino, Bologna 2002, pp. 155-159). Questa tesi cerca di dare conto dei passaggi giuridici che hanno caratterizzato il tentativo di dare risposte e soluzioni alla logica conflittuale richiamata nelle pagine precedenti: ciò è avvenuto prima con l’approdo alla piena cittadinanza politica delle donne (almeno dal punto di vista formale), mediante l’estensione dell’elettorato attivo e passivo, poi con gli sforzi dell’ordinamento per rendere le proprie istituzioni più rappresentative della società cui partecipano e in cui operano donne e uomini. Si è voluto fare questo dando il massimo rilievo ai lavori parlamentari delle norme che si sono succedute nel tempo (o proposte e discusse nelle assemblee legislative o dei loro organi, senza poi vedere completato – o iniziato – il proprio iter): si è trattato, in certi casi, di consultare documenti non di immediata e facile reperibilità, nella speranza di ricostruire in modo completo tanto i passaggi che hanno condotto a un singolo intervento normativo, quanto il clima in cui esso è stato ottenuto, le altre ipotesi vagliate, non adottate e le loro potenziali ricadute sul sistema costituzionale. Il primo capitolo è dedicato al percorso accidentato con cui si è esteso alle donne il diritto di votare, dopo che per decenni – e quasi per l’intera durata della monarchia – non si era riusciti a far approvare dal Parlamento norme in grado di far partecipare le donne al momento elettorale: il dibattito su quelle stesse norme, nonché il bagaglio di idee, valori e riflessioni legato a esso, ha contribuito assai a orientare la scrittura delle disposizioni costituzionali sull’elettorato attivo e passivo e sull’eguaglianza. Se il capitolo successivo si apre con l’estensione in extremis dell’elettorato passivo alle donne (in un primo momento non previsto espressamente, per distrazione o cattiva volontà), l’importanza innegabile della cornice tracciata dalla Costituzione circa i temi dell’eguaglianza (formale e sostanziale), della partecipazione, della parità di accesso e delle pari opportunità ha suggerito un’analisi attenta sia dei passaggi che hanno portato al testo originario delle disposizioni che interessano, sia – e soprattutto – delle riforme che hanno cercato di offrire risposte e strumenti per arrivare a un miglior funzionamento del sistema democratico anche dal punto di vista dell’equilibrio di genere nella rappresentanza; si parla anche, in parte, delle riforme che non hanno finito il loro percorso (compresa quella respinta con referendum nel 2016), per riflettere anche sulle conseguenze che avrebbero potuto comportare. Al livello costituzionale si deve affiancare il contenuto del capitolo terzo, in cui si valuta il modo in cui il legislatore nazionale e quelli regionali (a volte più tempestivi e creativi del Parlamento) hanno affrontato le istanze di (ri)equilibio, soprattutto grazie allo strumento delle quote e al ruolo svolto dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, da considerare con attenzione nella sua evoluzione (snodata sulle sue tre sentenze fondamentali, n. 422/1995, n. 49/2003, n. 4/2010), non sempre immediatamente comprensibile. Nello stesso terzo capitolo ho dedicato una parte importante a una questione legata alla qualità della democrazia: il rispetto della parità di genere negli organi esecutivi. Quell’ambito, pur essendo arrivato relativamente di recente all’attenzione dei tecnici, ha visto più di ogni altro un’interazione frequente – non sempre lineare – tra norme regionali, norme statali e decisioni dei giudici (amministrativi e la stessa Corte costituzionale) che ha permesso di specificare e “testare” in varie occasioni alla prova dei fatti le regole concepite e messe a punto dal legislatore. Il capitolo si chiude con un paragrafo relativo alle norme di diritto internazionale ed europeo che vengono in considerazione parlando di eguaglianza, pari opportunità e democrazia paritaria. L’ultima parte è stata pensata come un tentativo di guardare ad altre esperienze giuridiche europee, vicine, per analizzare il modo in cui hanno voluto affrontare la questione dell’elettorato attivo e passivo femminile, ciascuna con le proprie peculiarità che hanno inciso nella considerazione del rapporto tra dignità e diritti alla base anche della determinazione della politica. Mi sono concentrato sul percorso del Regno Unito (tra i primi ordinamenti a estendere il diritto di voto alle donne, prima a livello amministrativo, poi politico) e sull’iter seguito dalla Francia (che allo stesso risultato è arrivata quasi trent’anni più tardi, dopo una lunga ostilità), prestando attenzione alle diverse strategie adottate nei due paesi per tentare di rendere più equilibrata la rappresentanza sul piano del genere. Nell’ordinamento britannico, influenzato dal sistema elettorale con i collegi uninominali, si è lasciato infatti che fossero i partiti a individuare soluzioni per portare più candidate nelle assemblee elettive, con un intervento “di cornice” solo successivo del legislatore; in quello francese, al contrario, è stato il Parlamento a occuparsi per primo del tema, pur essendo stato necessario modificare in precedenza le norme costituzionali per rendere legittime le misure di riequilibrio della rappresentanza (inizialmente censurate dal Conseil constitutionnel). Un percorso che, come si vedrà, consente di stabilire un parallelo tra Francia e Italia.
URI: http://hdl.handle.net/2307/40394
Diritti di Accesso: info:eu-repo/semantics/openAccess
È visualizzato nelle collezioni:Dipartimento di Scienze Politiche
T - Tesi di dottorato

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