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http://hdl.handle.net/2307/4003
Title: | Figure sintomatiche dell'eccesso di potere e ragionamento del giudice | Authors: | Carcione, Maria Grazia | Advisor: | Corso, Guido | Issue Date: | 11-May-2012 | Publisher: | Università degli studi Roma Tre | Abstract: | Dall’analisi dell’evoluzione della giurisprudenza amministrativa condotta in questo lavoro emergono alcuni elementi importanti per comprendere come si sviluppa il ragionamento del giudice nell’esercizio del sindacato sulla discrezionalità amministrativa e tecnica. Ritengo che si possa affermare che sono due i concetti fondamentali che stanno alla base del ragionamento del giudice: 1) principio di ragionevolezza e figure sintomatiche dell’eccesso di potere; 2) elementi esterni di supporto al ragionamento ovvero elementi esterni di completamento del ragionamento dell’amministrazione. Con riguardo al primo aspetto, la giurisprudenza amministrativa sembra ormai costante nel fare applicazione, ancorché a volte non venga espressamente richiamato, del principio di ragionevolezza. Le figure sintomatiche dell’eccesso di potere vengono utilizzate non per accertare se l’amministrazione abbia perseguito l’interesse pubblico predefinito dalle norme attribuite del potere ma se la scelta sia stata o meno conforme al principio di ragionevolezza stesso. La figura sintomatica che meglio di ogni altra fornisce il senso di questo mutamento di prospettiva è rappresentata dal difetto di istruttoria: se il giudice ritiene che l’amministrazione non abbia effettuato la necessaria istruttoria ciò costituisce da solo motivo di invalidità dell’atto senza che occorre verificare se tale mancanza si sia risolta in concreto nella mancanza di tutela dell’interesse pubblico. La ragionevolezza è pertanto divenuta una sorta di “regola di condotta” cui l’amministrazione deve uniformare il proprio comportamento. Le figure sintomatiche dell’eccesso di potere costituiscono forme di esemplificazione concreta della stessa regola di condotta nell’ambito di un meccanismo che sta alla base della formazione di tutte le regole di condotta generali. Nell’esperienza amministrativa prima e in quella giurisprudenziale poi, l’osservazione delle vicende concrete ha condotto alla enucleazione di alcuni comportamenti dell’amministrazione che si risolvevano in una violazione degli interessi giuridici protetti. Questa esemplificazione amministrativa e giurisprudenziale ha consentito di fare ritenere che quella condotta dovesse essere in qualche modo sanzionata con il rimedio della invalidità dell’atto amministrativo. In altri termini, si è ritenuto che quel determinato comportamento fosse contrario alla regola della ragionevolezza. In questa prospettiva le figure sintomatiche non solo altro che comportamenti dell’amministrazione, tipizzati soprattutto in sede giurisprudenziale, che si pongono in contrasto con il principio di ragionevolezza. Da quanto esposto ne consegue che se l’amministrazione pone in essere una determinata attività rispondente ad una figura sintomatica ciò è sufficiente per ritenere violata la regola di condotta generale della ragionevolezza. Non esiste dunque diversità tra ragionevolezza e figure sintomatiche in quanto quest’ultime non solo altro che il nome “concreto” delle singole condotte poste in essere dall’amministrazione in contrasto con la ragionevolezza che è il nome “generale” del comportamento standard che l’amministrazione deve porre in essere. Questa modalità di operare dell’amministrazione e i conseguenti poteri del giudice riprendono, pur nella diversità dei contesti, i concetti privatistici di buona fede e dei poteri del giudice. La buona fede costituisce una regola generale di condotta, prevista dal codice civile che non ne fornisce una definizione, cui devono uniformare il proprio comportamenti i singoli. La Cassazione, anche in questo ambito, è ricorsa ad una sorta di tipizzazione dei comportamenti contrari alla regola generale della buona fede all’esito dell’osservazione dei comportanti che nella prassi vengono posti in essere. Si parla di tipizzazione giurisprudenziale dei comportamenti contrari alla buona fede. Ad esempio la Cassazione ritiene che sia in contrasto con la buona fede il comportamento di chi non comunica all’altra parte determinati dati o elementi in suo possesso relativi alla natura del bene oggetto di contrattazione. Una volta che il giudice accerta la presenza di questa condanna sanziona il comportamento per violazione della regola della buona fede. Ritengo che possa essere svolto un utile parallelismo tra il meccanismo che presiede all’accertamento della violazione del principio di ragionevolezza e il meccanismo che presiede all’accertamento della violazione del principio di buona fede con riferimento in particolare ai poteri privati. E cioè valutare il ragionamento che fa il giudice civile per sindacare i poteri privati alla luce dei principi generali di buona fede e correttezza. Da questa analisi comparativa sono emersi spunti di interesse per valutare il sindacato sull’eccesso di potere. La Cassazione si è occupata soprattutto del sindacato giurisdizionale relativo alle delibere societarie e in particolare ha affrontato la questione relativa al cosiddetto abuso del potere di maggioranza in ambito societario. E’interessante dunque stabilire qual è il ragionamento che fa il giudice civile quando sindaca il potere privato alla luce del principio di buona fede e qual è il ragionamento del giudice rispetto al principio di ragionevolezza. Ho riscontrato una certa analogia almeno con riguardo alle modalità del sindacato. Come noto, le delibere societarie sono adottate da persone giuridiche private nell’esercizio di un potere privato. La Cassazione ha affermato che la società non deve abusare del proprio potere e lo strumento che si utilizza per stabilire se nel nostro caso la società ha abusato del potere è costituito dal principio generale di buona fede e correttezza. Se il potere privato è esercitato con modalità che si pongono in contrasto con il principio di buona fede ci troviamo in un caso di abuso del potere. La dottrina civilistica ha chiarito che per aversi abuso di potere nel diritto privato è necessario che la norma assegni un potere discrezionale al soggetto privato. Se dunque vi è un potere privato discrezionale e l’ente lo esercita violando il principio della buona fede il comportamento integra gli estremi di un abuso del potere che viene sanzionato, in presenza di una società, con il rimedio dell’annullamento della delibera. Evidente dunque che compaiono tutte le componenti proprie del sindacato sui poteri pubblici e cioè: potere, discrezionalità, figura sintomatica, regola di condotta, rimedio dell’annullamento. La differenza è data dal fatto che nel diritto pubblico per sindacare il potere pubblico si utilizza il principio generale di ragionevolezza, nel diritto privato il principio di buona fede. 2. Il percorso del ragionamento del giudice modulato alla luce delle singole figure sintomatiche. Se il rapporto tra figure sintomatiche e ragionevolezza deve essere inteso, alla luce dell’analisi della giurisprudenza svolta in questo lavoro, come rapporto tra comportamenti singoli tipizzati dalla giurisprudenza e regola generale di condotta, l’altra questione centrale analizzata ha riguardato la rilevanza di altri elementi esterni che consentono di pervenire a quella valutazione. In altri termini si tratta di stabilire come il giudice arrivi a ritenere che quel difetto di istruttoria o quell’errore di fatto siano rilevanti e dunque costituiscano una vera e propria figura sintomatica. E’ questo il piano della individuazione e ricostruzione del ragionamento dell’amministrazione e del giudice. Quando il giudice amministrativo è chiamato dal ricorrente ad accertare l’esistenza di un vizio di incompetenza o di violazione di legge, egli deve istituire un confronto fra l’atto impugnato e la norma regolativa della competenza o di altro aspetto che si assume violato. Ovviamente le cose si complicano quando il ricorrente denuncia l’inosservanza da parte dell’amministrazione della ratio legis, ossia della finalità perseguita, del suo significato in relazione ad altre norme che con essa formano un sistema (arg. ex art. 1363 c.c.), della “intenzione del legislatore” (art. 12 preleggi). In questo caso, infatti, l’indagine richiesta finisce quasi con il coincidere con quella che il giudice compie in relazione ad una denuncia di sviamento di potere (che segue anch’essa l’identificazione del fine della legge). Quando il vizio prospettato nel ricorso corrisponde ad una figura sintomatica l’operazione richiesta al giudice è più complessa e varia anche in rapporto alle singole figure sintomatiche. Si pensi, ad esempio, al motivo con cui il ricorrente segnala un difetto di istruttoria. Se l’atto omesso è prescritto dalla legge (per es. un parere obbligatorio) allora la censura si risolve in una denuncia di violazione di legge. Se, come accade nella maggior parte dei casi, l’omissione non riguarda un atto o un operazione prevista dalla legge, ma un atto o un operazione che, a giudizio del ricorrente, doveva essere compiuto, il giudice è chiamato a stabilire se “i presupposti di fatto”che devono sussistere per la legittimazione del provvedimento sono stati debitamente accertati ossia se le “risultanze dell’istruttoria” (art. 3, l. 241/1990) siano adeguate rispetto all’accertamento richiesto. Il giudice, vagliando la ricostruzione del fatto, operato dall’amministrazione, procede in sostanza ad una sua ricostruzione, istituisce un suo collegamento tra i “presupposti di fatto” e le “ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione”: compie cioè un operazione logicogiuridica dal cui esito (se conforme o difforme da quello compiuto dall’amministrazione) dipende l’esito del ricorso. Da tenere presente che pure la Corte di Cassazione, che non è giudice del fatto, conosce di esso “quante volte i giudici del merito vi siano pervenuti attraverso criteri illogici o antigiuridici”1. A maggior ragione tale sindacato viene esercitato dal giudice amministrativo che, pur investito, con l’azione di annullamento, di una funzione sostanzialmente cassatoria, può conoscere del fatto, com’è attestato dalla presenza che risale alle origini della giustizia amministrativa di alcuni, sia pur limitati, mezzi istruttori. Aggiungerei che la cognizione e la ricostruzione del fatto spetta al giudice amministrativo anche in certi casi in cui viene denunciata una violazione di leggi: quando ad es. il ricorrente nega che la concreta fattispecie sia riconducibile alla previsione normativa di cui l’amministrazione ha fatto applicazione. Facciamo, adesso, l’esempio del motivo con cui viene denunciata la violazione della prassi: la prassi, poniamo, di tollerare piccole violazioni edilizie, contraddette dal provvedimento impugnato (un ordine di demolizione). Poiché la prassi, in questo caso, consiste in un comportamento negativo, protratto nel tempo, il giudice è chiamato ad accertare in primo luogo se tale prassi sia effettivamente esistente (a fronte di una difesa processuale dell’amministrazione volta a negarla) e se, in secondo luogo, una volta accertata l’esistenza di un comportamento tollerante ma contra legem protratto nel tempo, voglia dare fondatezza al motivo di censura. Quel che è certo, in casi del genere, è che il fatto che viene in rilievo nel processo non è soltanto quello “presupposto” alla decisione - come esprime l’art. 3, della l. 241/1990 – ma un contegno protratto nel tempo che viene assunto come termine di controllo rispetto all’atto impugnato. Qualcosa di analogo si verifica quando viene denunciata una disparità di trattamento. Qui il confronto viene sollecitato in relazione ad un singolo precedente (o anche rispetto ad un atto contemporaneo: per es. una stessa infrazione disciplinare commessa da una persona alla quale sono applicate sanzioni diverse). Il giudice, in questo caso, mette a confronto due situazioni intese non come pure e semplici situazioni fattuali, ma anche come situazioni giuridicamente qualificate. Se un dirigente ed un suo autista si sono appropriati indebitamente di una somma dell’amministrazione, ben può la sanzione disciplinare essere differenziata: perché alla identità del comportamento, trattandosi di correi, corrisponde una diversità di situazioni soggettive, perchè dal dirigente si pretende un senso del dovere ben maggiore di quello che si può pretendere da un autista. Sicchè ben si giustificano due sanzioni disciplinari diverse per le due persone. Il ragionamento del giudice amministrativo in questo caso, non è diverso da quello che svolge la Corte Costituzionale quando è chiamata a decidere una questione di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 3 Cost. Per valutare se le situazioni che, secondo il rimettente siano effettivamente uguali, sicchè non giustificherebbe un trattamento normativo diverso, la Corte deve mettere a confronto le due situazioni esaminando non soltanto gli assetti fattuali ma anche quelli che rientrano nella qualifica semigiuridica. L’argomentazione del giudice amministrativo, è ancora difforme di fronte ad una censura di violazione del principio di proporzionalità (anch’essa ricondotta al paradigma dell’eccesso di potere). Qui il confronto che il giudice è chiamato ad effettuare non è tra due atti o tra due situazioni, ma riguarda il rapporto tra la misura presa e l’obiettivo perseguito. Se fra queste due entità vi è sproporzione il giudice lo stabilisce, per un verso, passando in rassegna le misure giuridiche possibili, alternative a quelle prese, ossia mediante una ricognizione del complessivo quadro normativo (per stabilire, ad es., se lo stesso obiettivo poteva essere perseguito con una servitù di passaggio anziché con una espropriazione); e per altro verso, facendo riferimento a massime di esperienza (per es. per realizzare un edificio scolastico bastano 5000 mq anziché i due ettari previsti dalla dichiarazione di pubblica utilità). Analoga ma non identica, è l’operazione mentale richiesta da una censura di manifesta ingiustizia. Anche in questo caso, a differenza che nella disparità di trattamento, non viene in rilievo un confronto tra due situazioni. Il giudizio che il ricorrente sollecita è fondamentalmente un giudizio di valore: giusta o ingiusta è la misura presa? Un giudizio che non è quello soggettivo del giudice. Se l’ingiustizia deve essere manifesta, per giustificare l’accoglimento del motivo, deve essere tale che tutti la possono cogliere, appunto perché manifesta. Ancora. Il motivo che è proposto avverso il provvedimento (per es. la valutazione di una prova di esame) impugnato perché la Commissione non ha stabilito criteri di massima o li ha stabiliti in modo troppo generico (il difetto o l’insufficienza dell’ ”autolimite”). Qui il giudice deve stabilire se i criteri stabiliti nel bando o nella legge sono sufficienti a guidare la condotta dei commissari o debbono essere integrati: un operazione logica con la quale il giudice finisce per vestire i panni del commissario scrupoloso e quindi, ancora una volta, confermando la valutazione della commissione (quando respinge il ricorso) o sostituendo a quella la propria valutazione. Infinite sono poi le variazioni possibili in presenza di una censura di insufficienza della motivazione. Qui il giudice può ritenere adeguata la motivazione così come è formulata nel provvedimento impugnato; può ritenerla sostanzialmente sufficiente, sebbene non articolata adeguatamente (e in questo caso il giudice sostanzialmente la integra); può ritenere che, alla luce della difesa dell’amministrazione nel giudizio, la motivazione sia sufficiente (il divieto di integrazione giudiziale non sempre viene assicurato); può cogliere una contraddizione tra due motivi posti alla base dell’annullamento; può risalire ad altro atto dell’amministrazione, anche non richiamato dal provvedimento impugnato (art. 3, co. 3, l. 241/1990) per ricavarne una motivazione sufficiente; può pervenire alla conclusione che se anche la motivazione non è corretta e che, quindi, avrebbe dovuto essere diversa, l’esito del procedimento sarebbe stato lo stesso. In definitiva, la sentenza del giudice amministrativo in un processo in cui il ricorrente prospetta figure sintomatiche di eccesso di potere, difficilmente si esaurisce in un sillogismo o in una sussunsione. Fatti, voleri, qualificazioni giuridiche, massime di esperienza, principi economici (si pensi ai criteri di economicità ed efficacia enunciati dall’art. 1, l. 241/1990) idiosincrasie personali, confluiscono tutti in una pronuncia che riguarda una situazione concreta ma che è intessuta di proporzioni generiche o universali2. Naturalmente, queste conclusioni valgono per qualunque giudizio in qualunque processo, quando la domanda di annullamento dell’atto poggia su figure sintomatiche dell’eccesso di potere, la sentenza ha delle peculiarità, sul piano logico-giuridico, che si è cercato di evidenziare. | URI: | http://hdl.handle.net/2307/4003 | Access Rights: | info:eu-repo/semantics/openAccess |
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