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http://hdl.handle.net/2307/5952
Title: | La contemporanea duplicità dei beni culturali nelle zone di guerra : strumento di offesa e veicolo per la pace : il caso dello Stari Most a dieci anni dalla sua ricostruzione | Authors: | Strina, Enrico | Advisor: | Maniscalco, Maria Luisa | Keywords: | Mostar Unesco Beni culturali |
Issue Date: | 14-Jun-2016 | Publisher: | Università degli studi Roma Tre | Abstract: | 1. Arte, Storia, Memoria. Halbwachs e la memoria collettiva. Arte e Storia formano la memoria come fatto pubblico; e la memoria è costitutiva di qualsiasi comunità che voglia essere tale; essa è un fattore decisivo per l'identità della comunità (Toscano, 2008, p. 15). Questo passaggio di Mario Aldo Toscano ci rende subito consapevoli dei primi elementi da considerare: arte, storia, memoria. L'intreccio tra questi fattori è determinante e scaturisce da un processo non sempre pacifico o pacificato: I Beni Culturali non sono né pace né armonia: sono manifestazioni dell'avanzata faticosa di una frazione di umanità per gli itinerari impervi del mondo. Essi sono un riassunto delle dimensioni più ordinarie e più straordinarie, di eterni contrasti, di lotte tra valori (Ivi, p. 38). Il Bene Culturale è quindi il prodotto complesso di negoziazioni ma anche di imposizioni spesso conflittuali. Che la memoria possa diventare oggetto conflittuale ce lo spiega già Maurice Halbwachs, quando sostiene che la memoria collettiva “si accorda con i pensieri dominanti della società” (Halbwachs, 1987, p. 21). Se appare forzata, nella prospettiva halbwachsiana, l'idea che il ricordo individuale esista soltanto perché appoggiato su uno strato di memorie condivise da più persone e non vi sia spazio per una prospettiva psicologica del soggetto singolo, è altrettanto interessante il fatto per cui, in questa lettura basicamente durkheimiana, il ruolo dell'insieme societario sia determinante e vincolante per il soggetto. La memoria diviene quindi un'istituzione e come tale deve essere affrontata come problema delle forme istituzionalizzate che l'immagine del passato assume nella coscienza dei gruppi, e dei modi e le forme di questa istituzionalizzazione. Nessun gruppo potrebbe riprodursi nella propria identità senza produrre e conservare un'immagine del passato consolidata, almeno per alcune delle sue linee ritenute fondamentali e valide dall'insieme dei membri. Affinché però ciò avvenga, la memoria si costituisce di ricostruzioni parziali e selettive del passato. L'idea chiave di Halbwachs è dunque che ricordare sia attualizzare la memoria di un gruppo. L'immagine del passato che il ricordo attualizza non è tuttavia qualcosa di dato una volta per tutte: se il passato si “conserva”, si conserva nella vita degli uomini, nelle forme oggettive della loro esistenza e nelle forme di coscienza che a queste corrispondono. Ricordare è un'azione che avviene nel presente, e dal presente dipende. La ricostruzione del passato dipende agli interessi, ai modi di pensare e ai bisogni ideali della società presente. Tuttavia (…) l'immagine del passato che ogni società si rappresenta è, in ogni epoca determinata, qualcosa che si accorda con i pensieri dominanti della società stessa. I contenuti della memoria collettiva costituiscono dunque un insieme denso e mobile, che (…) costantemente è modificato, del passato è sempre un fenomeno dinamico. Ora, questa dinamica non esclude il conflitto. (…) L'idea forse più fruttuosa che si può ricavare da Halbwachs è proprio quella che il passato, oggetto di ricostruzioni successive e suscettibili di modifica, sia una sorta di posta in gioco fra interessi e gruppi contrapposti. (…) La memoria collettiva rappresentata dalla coscienza comune di queste società riflette effettivamente il risultato di uno scontro nel quale sono decisivi i rapporti di potere fra i gruppi diversi dei quali la società globale è composta (Halbwachs, 1987, p. 28). 2. Gruppi in conflitto: la posta in gioco. Memoria vs oblio. Ora la questione si sposta dunque sui gruppi che spostano l'equilibrio della “posta in gioco”, come l'ha definita poco sopra Paolo Jedlowski. Il controllo di ciò che in qualche modo deve diventare memoria è allora elemento decisivo per chi si sfida nell'arena dei significati simbolici e contemporaneamente politici. Allo stesso modo, da contraltare, oltre a ciò che deve diventare memoria si affianca ciò che deve essere escluso dalla memoria, in un processo selettivo sia positivo che negativo. Un oggetto, un avvenimento, un artefatto, un luogo, possono essere elevati qualcosa da ricordare come essere cancellati con impeto e velocità. Gli esempi sono disparati e forse anche, apparentemente, contraddittori. Si può ricordare una vittoria militare, come la vittoria di Stalingrado per le forze sovietiche ed in generale antinaziste. Al contempo si può ricordare anche una sconfitta, come monito per non ripetere errori commessi e guardare ad un futuro migliore: i giapponesi ogni anno fanno tesoro delle esperienze di Hiroshima e Nagasaki. Si può però anche ricordare una sconfitta per creare un mito: i serbi trovano nel massacro di Kosovo Polje il loro mito fondativo. Si può creare un monumento ad hoc anche lontano dal luogo fisico in cui è avvenuto il fatto. Allo stesso modo è possibile distruggere un qualcosa del gruppo avverso: a Mostar i croati hanno bombardato lo Stari Most, testimonianza del passaggio ottomano in Bosnia e simbolo della città erzegovese. 3. “Le nuove guerre” e il ruolo dell’etnia Il contesto delle “nuove guerre” (Kaldor, 1999), è quindi terreno di coltura per questo tipo di conflitti, manifestatisi soprattutto successivamente alla caduta del Muro di Berlino. Attori deputati a poter dichiarare guerra nei confronti di attori di pari grado. Lo scenario disegnato da Kaldor è decentralizzato e disordinato a causa della fine dell’era dei blocchi contrapposti. Contemporaneamente lo stato nazione non solo è meno forte fuori dei propri confini, ma anche internamente ha subito e sta subendo un processo di progressiva erosione dei propri poteri coercitivi e di prevenzione delle minacce interne. Secondo alcuni autori, tra cui W. Pfaff (1993), la fine del mondo diviso in blocchi ha fatto sì che finissero i conflitti tra stati e nascessero quelli tra gruppi divisi da identità e modelli di vita inconciliabili. Le divisioni di oggi in azione sarebbero però decisamente più violente di quelle espresse nella prima modernità in quanto le identità astratte e laiche della cittadinanza statale tendono ad essere sostituite da altre di natura culturale, religiosa ed etnica tra le quali è più difficoltoso il compromesso (Maniscalco, 2008), dando vita ad un ambiente neo-barbarico. Va qui ricordato anche Huntington (1997), con la sua teoria dello scontro delle civiltà, “secondo la quale i conflitti successivi alla guerra fredda si spiegano in termini di divergenze culturali piuttosto che ideologiche o economiche; più che particolari stati, esse tendono ad interessare coalizioni di stati omogenei tra loro rispetto alle 'civilizzazioni' di appartenenza” (Maniscalco, 2008, p. 29). Secondo Kaldor siamo quindi in presenza di conflitti intrastatali che però differiscono dalle guerre civili dell'epoca pre-1989. Le differenze si riscontrano negli scopi, nei metodi di combattimento (guerriglia per eliminare l'altro), per la tipologia delle unità di combattenti (privatizzazione dei corpi) e nei metodi di finanziamento (ottenuto con attività malavitose). Questi conflitti vengono infatti combattuti sulla base di etichette etniche, in cui una nuova politica dell'identità, fondata su un comunitarismo esclusivo, annulla le politiche inclusive statali. L'etnia, in questo rinnovato quadro, diviene quindi l'attore principale intorno al quale poter sviluppare il gruppo di riferimento nei conflitti intrastatali. Questi conflitti, come ricordato, si basano su etichette che vengono affibbiate da un gruppo all'altro: si diviene gruppo per creazione autonoma o per esclusione da un determinato contesto. La lingua (in moltissimi casi si dovrebbe parlare di dialetti), la religione, il clan, i tratti somatici, una storia condivisa, sono gli elementi che fanno sì che il gruppo tracci un confine in-out netto e non valicabile. L'esclusione, più che l'inclusione, è il fattore che determina l'appartenenza. 4. I Beni Culturali nelle “nuove guerre”: gli spazi interstiziali, sospesi e marginali. I Beni Culturali assumono un ruolo determinante all'interno dei conflitti sopra descritti, per vari motivi tra loro collegati. Anzitutto, il bene culturale, come abbiamo detto all'inizio, è traccia della memoria del gruppo etnico ed anzi viene accettato, creato, ricreato, protetto dal gruppo stesso proprio per dare delle basi comuni a tutti gli appartenenti della formazione sociale. Il bene culturale è testimonianza del passato, emblema dell'esistenza/persistenza presente e segno di continuità protesa al futuro. Può provenire dal passato, come nel caso dello Stari Most (1555) che riconduce direttamente al passaggio ottomano nell'area. Oppure può essere creato nel presente per ricordare il passato (antico o recente) e proiettarlo nel futuro. Rimanendo nell'ex-Jugoslavia possiamo pensare alla Torre di Gazimestan, un luogo spoglio e dal basso significato artistico e architettonico, ma situato nella Piana dei Merli laddove i serbi furono sconfitti dagli ottomani nel 1389, data da cui i serbi fanno partire la fondazione delle proprie radici comuni. L'intreccio Arte-Storia-Memoria si esplica quindi in un rapporto triangolare e paritetico, in cui i tre elementi si danno forza l'uno con l'altro. La Storia può essere selezionata per meglio indirizzare la Memoria nel senso halbwachsiano. L'Arte può diventare il campo di applicazione visiva ed emotiva del triangolo suddetto. L'opera artistica però è situata in luoghi ben precisi, sia momentanei (mostre) sia stabili (opere monumentali) e questi luoghi sono configurabili quindi come spazi determinati, riconoscibili e soprattutto riconosciuti dai gruppi chiamati al loro utilizzo. In questo caso siamo di fronte a quelli che qui definiamo come “spazi intensivi”. Prima però di arrivare agli spazi intensivi, necessitiamo di riflettere sulle altre categorie dello spazio. Il problema dello spazio è stato quindi oggetto, da parte della letteratura sociologica, di intense elaborazioni e revisioni. Già Simmel, nel suo Lo spazio e gli ordinamenti spaziali della società, sottolineava sin da subito la natura multiforme dello spazio, in quanto unione di elementi psichici e di intuizioni dell'anima: Nell'esigenza di funzioni specificatamente psichiche per le particolari configurazioni storiche dello spazio si riflette il fatto che lo spazio è soltanto un'attività dell'anima, è soltanto il modo umano di collegare in visioni unitarie affezioni sensibili in sé slegate (Simmel, 1998, p. 524). Siamo allora di fronte ad una realtà composta da tanti “spazi particolari” che, come ci dice Emanuele Rossi (2006), “potremmo definire come spazi sospesi, i quali, pur differenziandosi nella loro strutturazione (…) e nelle loro finalità, si presentano sociologicamente interessanti soprattutto per ciò che contengono, per le forme di relazione e di convivenza che sono in grado di ospitare, di produrre o semplicemente di annullare” (p. 9). Per fare ciò “abbiamo bisogno quindi di re-imparare ad osservare e ad interpretare lo spazio, di riconoscere allo spazio e alle diverse forme che di volta in volta è in grado di assumere, la funzione di strumento di lettura privilegiato di tutte le cose, vero e proprio deposito a cui è necessario attingere per comprendere in modo qualitativo il gioco incessante delle passioni, degli entusiasmi, degli antagonismi, così come dei tormenti e delle sofferenze che da sempre caratterizzano gli esseri umani; ma per far ciò bisogna saper di nuovo lasciare spazio all'immaginazione e soprattutto non ridurre gli spazi a semplici rapporti geometrici (...)” (Ivi, p. 15). E' solo in questo modo che è possibile quindi scoprire, mediante “una speciale lente sociologica, individuata nel concetto di sospensione” (Ivi, p. 9), alcuni di questi “spazi particolari”, in cui è possibile sospendere il normale corso degli eventi. Siamo quindi in grado di determinare diverse declinazioni di questi “spazi sospesi”: “spazi interstiziali”, “di margine”, “di consumo”. Qui ci interesseremo in particolar modo dei primi due, per il loro diretto collegamento con l'idea di “spazio intensivo”. Il concetto di “interstizio”, esaminato da Gasparini (2002), è di difficile e complessa collocazione ed anzi lo stesso autore dubita che si possa parlare di vero e proprio concetto. È altrettanto vero però che l'interstizio riesce “ad illuminare una serie di fenomeni specifici della vita quotidiana”, divenendo “il tramite, la cerniera, la porta, il ponte o il guado che consente il passaggio verso altri sistemi organici di significati”. Già Simmel (1998) aveva però evidenziato, sempre nel suo Lo spazio e gli ordinamenti spaziali della società, lo “stare fra” (p. 523) come funzione sociologica. Lo spazio infatti è una “forma priva di qualsiasi efficacia che, però, proprio in quella naturale situazione dello stare fra, può svolgere quella fondamentale funzione di elemento necessario alla configurazione di tutte le cose, rendendo in tal modo effettivamente possibile lo strutturarsi di qualsiasi forma di interazione” (Rossi, 2006, p. 56). Il vivere in comune quindi si sostanzia all'interno di uno spazio comune e condiviso che viene continuamente svuotato e riempito dalle interazioni che si susseguono di volta in volta. È lo spazio interstiziale quindi quello in cui si creano le relazioni, un “terreno di incontro” tra individui e/o gruppi comunicanti. Un altro contributo interessante che riguarda lo “stare tra” è offerto da Henry Pross, che si è cimentato nell'elaborazione del concetto di “spazi intermedi”. Per questo autore infatti qualunque forma spaziale è prodotta dal potere, che ne determina le configurazioni, i confini ed i limiti. Anche la costruzione di elementi fisici spaziali (palazzi, strade, accessi) sono una forma del potere vivente, ma accanto agli ordini che si susseguono in termini di spazio (superiore e inferiore) e di tempo (…) sono individuabili gli spazi e i tempi della transizione. Edifici, accessi, limiti sono le manifestazioni quotidiane di differenti ordini; ci sono però corridoi, angoli, differenze di altezze e di profondità, fuori dal controllo: per questo si configurano come spazi intermedi che procurano un senso di liberazione e di riparo dalla pressione dei tempi sociali (Pacelli, 2010, p.188). Anche in Pross è quindi possibile ravvisare quello “stare tra” simmeliano, come luogo di eventi sociologici reciproci continuamente in atto e che quindi senza sosta si creano, ricreano e rinnovano in un'arena sempre aperta ad una perpetua negoziazione di socialità o di socievolezza, per citare ancora Simmel. Tuttavia questo continuo muoversi tra “morire e divenire, e divenire e morire” fa sì che questi spazi intermedi, nonché quelli interstiziali, siano quindi contenitori ad “intermittenza”, i quali vivono dell'intensità temporanea delle relazioni che vi insistono all'interno, quando coloro i quali li percorrono e vi sostano decidono di instaurare dei rapporti di socialità con gli altri. Sono spazi quindi senza storia e senza futuro, lontani dal “luogo antropologico” di Augè (1993), eppure capaci di accogliere la costruzione di nuovi simboli e di rituali che lì vengono messi in atto e permangono per poco tempo. Queste occasioni di breve intensità fanno sì che però vi si verifichino degli accumuli energetici, diventando, come intuì Simmel, dei “centri di rotazione” (1998, pp. 540-1) intorno ai quali “si sviluppano relazioni con forte carica emotiva” (Rossi, 2006, p. 64). In altri termini, siamo in presenza di uno spazio non identitario, a relazionalità forte soltanto in alcuni momenti e su cui non si radicano forme fisse data la continua transizione di soggetti che vi transitano all'interno. Un'altra tipologia di spazio di forte interesse è quella rappresentata dagli “spazi di margine”. Per andare a trovare queste forme spaziali bisogna anzitutto risalire ai luoghi che ogni giorno sperimentiamo nelle nostre esistenze. Bauman (2006, p. 116) osserva come nelle nostre società contemporanee lo spazio sociale tende a formarsi prevalentemente sulla base di ciò che egli definisce proteofobia, ovvero la paura della diversità. Questa paura fa sì che all'interno delle nostre “mappe mentali” si vengano a creare dei “buchi” creati volontariamente al fine di distinguere ciò che attraversiamo necessariamente e ciò che altrettanto volontariamente escludiamo in un tentativo di razionalizzare e di dare maggiore importanza ai luoghi che viviamo ed in cui transitiamo, ci situiamo e ci relazioniamo quotidianamente. Il margine è quindi un qualcosa che è nello stesso momento all'interno ma anche all'esterno dell'ambiente percepito: interno per ubicazione ma esterno per quanto riguarda l'interezza delle relazioni sociali. Siamo quindi in presenza di uno spazio che viene inteso come un luogo di difesa, che serve per preservare e sottolineare la specificità del proprio ambiente: un modo per porre un “altro da sé”, per sospendere alcune questioni scottanti ed infine per dare una collocazione a quelle “società a fianco” che risultano un qualcosa da nascondere alla vista. Ed è proprio in questi margini che coloro i quali vi sono confinati possono ricreare zone di sociazione, sfruttando quell'oscurità di cui gli spazi di margine sono creati proprio dall'ambiente “di maggioranza” circostante. Nell'”effervescenza sociale” (Rossi, 2006, p. 90) esistente dentro ai margini risiede l'interesse verso questi nuovi centri di creazione di simboli e di senso. In conclusione, gli spazi interstiziali e di margine risultano quindi essere delle forme sospese, non ben definite, volatili. Proprio per questa loro condizione di transitorietà sono però attraversati da momenti ad altissima intensità relazionale ed emozionale che ne determinano l'importanza per i suoi “abitanti”. Nonostante la loro posizione defilata gli “spazi particolari” rimangono sempre in contatto con lo spazio principale, proprio perché sono prodotti da questo o perché sono popolati da coloro i quali in esso non devono risiedere o al massimo possono sostarvi/transitarvi per pochi, innocui, attimi. 5. Una nuova categoria concettuale: lo “spazio intensivo” Lo spazio intensivo si configura come una forma spaziale che sicuramente trae alcuni elementi dagli spazi descritti precedentemente, ma al contempo ne scarta alcuni fattori per accoglierne altri. Lo spazio intensivo è la “residenza” del bene culturale attorno al quale i gruppi si riuniscono, caricando di emotività e di senso il luogo/bene prescelto. Anzitutto, come ci ricorda Maurice Halbwachs (1987, pp. 135- 42), c'è una piena identificazione del gruppo con il luogo ed anzi la “fisicità” del bene culturale descrive, arricchisce e dà sostanza al luogo stesso. Luogo e bene culturale agiscono simultaneamente, dato che l'uno non può esistere senza l'altro. Il bene culturale diviene tale proprio perché è situato e sussiste in un dato luogo, che può essere, ad esempio, teatro di rivendicazioni territoriali (come nel caso della Torre di Gazimestan nella Piana dei Merli in Serbia). Il luogo invece diventa rilevante, unico e “degno” di riconoscibilità proprio per la presenza del bene culturale. Tuttavia, non basta la presenza del bene culturale per dotare di intensività lo spazio. Altri fattori diventano determinanti. Anzitutto, rispetto agli spazi interstiziali e a quelli di margine, lo spazio intensivo è anch'esso uno spazio “sospeso”, laddove la ritualità che vi insiste è frutto di momenti di richiamo politico/religioso collettivo. In confronto allo spazio interstiziale, lo spazio intensivo ne condivide la condizione di “stare fra”: spesso infatti lo spazio intensivo sta fra due gruppi in conflitto ed anzi segna il confine di uno rispetto all'altro. Può essere un confine sia fisico (quando ad esempio viene ricoperto d'importanza il limite dello stato) o simbolico/religioso, quando per esempio prendiamo come punto di analisi un luogo di culto, in cui accede solo chi condivide la medesima fede. È inoltre un terreno d'incontri, tra gruppi diversi ma molto più spesso tra appartenenti ad uno stesso gruppo. Di certo al suo interno possiamo trovare quella intermittenza interazionale che fa sì che lo spazio intensivo “viva” in determinati momenti: le celebrazioni, le ricorrenze, gli anniversari, una funzione religiosa. Al pari degli “spazi intermedi”, lo spazio intensivo può fungere da temporanea via dalle strutture del potere, anche se è una funzione diretta del potere. All'interno dello spazio intensivo infatti il forte coinvolgimento emozionale fa sì che si vada oltre ai sentimenti tipicamente nazionalisti o di identificazione con lo spazio medesimo. Quando si fa pratica di qualche rito o cerimonia (religiosa e/o civile) all'interno dello spazio intensivo, si trascende la dimensione puramente politica o religiosa per anelare ad un obiettivo per l'appunto trascendentale, immanente. L'appello per esempio di un leader nazionalista diventa destino di un popolo, la terrena funzione religiosa invece si trasforma in appuntamento con l'infinito. Di certo, come abbiamo visto in Simmel, lo spazio intensivo è un “centro di rotazione”, dato l'alto investimento emozionale che su questo fanno gli appartenenti ai gruppi. Oltre a ciò, lo spazio intensivo può essere paragonato anche agli spazi di margine. Al pari di questi infatti lo spazio intensivo può crearsi come ghettizzazione di una minoranza all'interno di un luogo che diviene poi il nucleo di rivendicazioni della minoranza stessa. La differenza principale dello spazio intensivo rispetto agli altri “spazi particolari” risiede nel contrasto tra fissità ed intermittenza. Mentre gli spazi di margine e interstiziale rimangono comunque delle zone di transito senza una storia, un passato o un futuro, lo spazio intensivo, nonostante la transitorietà dei suoi eventi, è sempre presente. È uno sfondo che può essere riattivato socialmente, politicamente o religiosamente in ogni istante. È uno spazio in cui la narrazione riparte sempre dal punto in cui era stata interrotta e all'interno del quale la stessa narrazione non viene continuamente rinegoziata ma parte da punti fissi nella memoria e nella storia del gruppo. Possiamo parlare quindi di una “intermittenza stabile”, dove “stabile” può essere declinato in due modi: anzitutto perché è un'intermittenza che si ripete ad intervalli di tempi regolari (dodici mesi per gli anniversari civili, sette giorni per la maggior parte delle funzioni religiose); in secondo luogo perché vi è una stabilità ripetitiva e certa dei contenuti non negoziabili che vengono ogni volta riscoperti, riaffermati e, se possibile, ancora più arricchiti nella loro funzione simbolica e distintiva. Si tratta quindi di spazi in cui la storia, il mito, il rito, il simbolo, hanno un alto impatto e sono costitutivi dello spazio stesso. Siamo in un campo molto vicino a quello che conosciamo come “luogo antropologico”. Marc Augè (1993) ha proposto per primo questo concetto. Il “luogo antropologico è simultaneamente principio di senso per coloro che l'abitano e per colui che l'osserva”. Il luogo antropologico diventa così una parte importante nell'elaborazione delle identità personali e nelle relazioni tra membri del medesimo gruppo, dato che coloro che vi “nascono all'interno (…) hanno la possibilità di sviluppare con questo un rapporto esclusivo” (Rossi, 2006, p.101) in cui le stesse relazioni reciproche interne diventano circoscritte e realizzabili solo da chi vive quel luogo. Allo stesso tempo il luogo antropologico possiede anche un carattere storico proprio perché la dimensione relazionale ed esclusiva è inoltre ripetitiva e costituisce una garanzia di stabilità ai membri appartenenti. Queste qualità, unite al fatto che per la memoria il luogo essendo l'elemento sensibilmente più visibile, dispiega abitualmente una forma associativa più forte che non il tempo (…), proprio lo spazio si collega (...) inscindibilmente (…) nella memoria e (...) il luogo continua a rimanere il centro di rotazione intorno al quale il ritorno avviluppa gli individui in una correlazione ora diventata ideale (Simmel, 1998, p.540). Questa unione di luogo antropologico e “centro di rotazione” a forte carica emotiva fa sì che lo spazio diventi quindi “intensivo” nel senso delle relazioni che vanno ad inserirsi all'interno di quest'ultimo. 6. Conclusioni La situazione così descritta è quindi immediatamente ricollegabile all'importanza che i beni culturali rivestono all'interno dei nuovi conflitti del Ventunesimo secolo. Il ruolo determinante che questi luoghi “intensivi” hanno nell'unire il gruppo etnico di riferimento, riprendendo Smith (1984), sotto i punti di vista dei miti, delle storie e dei simboli condivisi, rende immediatamente determinante la posizione delle dispute attorno ai beni culturali. Tali beni possono essere quindi visti, come detto all'inizio, alla stregua di un “riassunto delle dimensioni più ordinarie e più straordinarie, di eterni contrasti, di lotte tra valori” (Toscano, 2008, p. 31). Non si può trascendere da essi ed anzi il gruppo etnico ne richiede l'esistenza, come riserve di memoria e di coesione univoca. Proprio però per questo ruolo determinante e così tanto identificante, è possibile, allo stesso tempo, rovesciare questa natura “polemizzante” per renderla invece dialogante: l'avvicinamento tra culture e gruppi diversi può avvenire solamente riconoscendo ed apprezzando l'unicità dell'altro. È per questo motivo quindi che, attorno al bene culturale, si sviluppa una duplice energia che gli attori sul campo devono saper ben indirizzare. | URI: | http://hdl.handle.net/2307/5952 | Access Rights: | info:eu-repo/semantics/openAccess |
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