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Title: Clausole generali e altre forme della generalizzazione normativa
Authors: Forcellini, Federica
Advisor: Albanese, Antonio
Keywords: buona fede
generalizzazione normativa
ermeneutica
Issue Date: 18-May-2015
Publisher: Università degli studi Roma Tre
Abstract: La tesi tratta delle forme della generalizzazione normativa ed è suddivisa in tre capitoli. La prima questione che si è affrontata riguarda il rapporto tra norma e valore. Nell’ottica prescelta – quella neoistituzionalista – il sistema-diritto appare come un insieme unitario di scopi, privo di quel relativismo assiologico che caratterizza la prospettiva contrattualista, alcuni dei quali – quelli fondamentali per la civile convivenza – preselezionati dal legislatore e resi evidenti nella Carta costituzionale, altri ancora – quelli strumentali alla cooperazione interindividuale – declinati all’interno di norme gerarchicamente inferiori. Gli scopi del diritto, però, non sono finiti e non si identificano, pertanto, in quelli incorporati nelle disposizioni normative. Poste le premesse fondamentali, l’ordinamento predispone, infatti, una serie di meccanismi per mantenersi “cognitivamente aperto” rispetto alle esigenze della collettività i cui bisogni è chiamato a soddisfare. In quanto risultanti di un processo di oggettivizzazione e astrazione storica degli interessi individuali, i valori o scopi del diritto non seguono la logica escludente tipica degli insiemi conchiusi. La rispondenza o meno di determinate condotte ad un valore ben può mutare (come normalmente muta) al mutare del tempo in cui il giudizio di verosimiglianza viene svolto. Tale la ragione per cui la positività della norma non è un attributo originario della stessa ma le si accosta nel momento in cui la norma passa dalla dimensione statica e astratta di ius positum a quella dinamica e vivente del decisum. La positività del diritto, in altri termini, non nasce con il perfezionarsi dell’iter legislativo formalmente necessario ai fini della sua validità ma deriva dall’operazione ermeneutica, intesa come atto finale di creazione della norma demandato (ab origine ed in ogni caso) ad un soggetto giuridicamente educato ma appartenente alla stessa dimensione storica e concreta in cui il decisum è destinato ad incardinarsi. Tant’è che, quando interprete non è il giudice ma il consociato e non si verifica un conflitto circa il modo di intendere il modello di condotta preferito dall’ordinamento la norma è comunque positiva. In questo caso, infatti, non vi è la necessità di ricorrere alla tutela giurisdizionale dei diritti poiché vi è consenso tra le parti interessate e la norma è per ciò solo positiva ossia di fatto vigente. Si tratta, però, di una positività precaria perché affidata al mero consenso attuale sul modo di intendere il comando legislativo e sempre esposta alla eventuale decisione contraria dell’organo istituzionalmente preposto ad accertarla in modo definitivo, almeno fintanto che non subentrino meccanismi automatici di stabilizzazione di quello che chiameremo “decisum diretto”, primi tra tutti la prescrizione e la decadenza. Questa dinamica conferma ulteriormente la nozione in questa tesi sposata circa il fondamento volontario del diritto (svincolato, cioè, dal principio dei rapporti di forza che rappresentano, al più, una contingenza negativa) che è corollario dell’ulteriore nozione di diritto come scienza pratica e, infine, dell’idea della protezione come “minimo assiologico giuridico”. La fisiologia osmotica tra diritto e realtà si ricava intendendo i valori in senso oggettivo e sostanziale ossia come idealità che, acquistando senso solo se calate nella dimensione storica e concreta degli atti (come componenti dei fatti), necessariamente corrispondono a interessi epurati del corredo fattuale e selezionati (ex ante o ex post) come giuridicamente rilevanti. Per onestà intellettuale, è opportuno precisare che tale nozione di valore, coincidente con lo standard mengoniano, è però mediata dal riconoscimento di un dualismo dei valori al pari di quanto può dirsi, in generale, per il fenomeno giuridico, la cui natura è statica e quindi ideale nel suo essere jus positum e dinamica e quindi concreta nel suo traslare a directum. Si è ritenuto, così, di poter individuare quale tratto fondamentale del rapporto tra norma e valore la dialetticità che identifica anche il senso del sistema giuridico riguardato in un’ottica non già sostanziale ma funzionale, come congegno di riduzione della complessità secondo la logica dell’utile o dannoso. La seconda questione che si è tentato di sviscerare è se, poste queste premesse iniziali, sia possibile distinguere le generalizzazioni normative non solo (o non tanto) a seconda del loro modo di incidere sulla realtà ma anche (e soprattutto) sul tipo di procedimento cognitivo che le stesse impongono all’interprete per dotare lo ius positum della dovuta positività. Una prima distinzione si è operata con riferimento alle regole e ai principi da un punto di vista strutturale, secondo la nota distinzione forte – che non lega cioè la differenziazione tra le une e gli altri al maggiore o minore grado di vaghezza concettuale-descrittiva della norma ma riconosce (con varie soluzioni) differenze sostanziali. L’idea proposta è quella di una generalizzazione puramente assiologica nel caso dei principi e di una generalizzazione (immediatamente) descrittiva e (mediatamente o implicitamente) assiologica nel caso delle regole, le quali poi, sotto il primo profilo (concettualedescrittivo) possono essere più o meno vaghe con ciò non richiedendo un’operazione diversa all’interprete ma solo un maggiore o minore sforzo ricognitivo in punto di fatto. Una seconda distinzione si è tentata, dal punto di vista funzionale, riconoscendo quali destinatari primari dei principi il legislatore e l’interprete e quali destinatari primari delle regole i consociati. Tale circostanza si è desunta dalla diversità di struttura: i principi, in quanto norme incondizionate, identificano gli scopi del diritto e indicano a livello astratto e oggettivo le condotte (da selezionare come) preferibili al fine di darvi attuazione ma, in quanto norme non precettive, dispiegano i loro effetti solo all’interno del sistema-diritto essendo destinate ad orientare la condotta dei soggetti istituzionalmente qualificati ad edificarlo e manutenerlo. Il giudizio di verosimiglianza sulla preferibilità o meno della condotta posta in essere in forza dei principi generali riguarda, pertanto, principalmente la condotta del legislatore (in quanto primo interprete) e del giudice (in quanto ermeneuta), investendo eventualmente solo la condotta interpretativa del consociato in relazione ad una regola capace di dispiegare i suoi effetti direttamente nei confronti dello stesso. Le regole, in quanto norme condizionate e immediatamente precettive, sono destinate a regolare le umane vicende e si orientano naturalmente in senso estroflesso verso i consociati. Esse non indicano, se non a livello implicito, lo scopo perseguito dall’ordinamento (in ragione del quale sono state emanate e continuano a ricevere attuazione) ma solo la condotta attesa dal consociato e gli effetti che si ricollegano alla sua violazione. Questa distinzione funzionale fondata sulla diversità di struttura autorizza una partizione ulteriore tra principi, regole e clausole generali. Queste ultime, infatti, sono forme della generalizzazione puramente assiologiche, come i principi, ma essendo normalmente incardinate all’interno di una fattispecie completa della descrizione del fatto e corredata dall’effetto condividono la destinazione d’uso delle regole. L’avverbio normalmente è d’obbligo perché esula da questa normalità la clausola generale per eccellenza ossia la buona fede che merita, pertanto, una classificazione a sé e su cui si tornerà parlando del terzo capitolo. La natura ibrida delle clausole generali, quindi, pur implicando una certa elasticità assiologica, è mitigata dall’essere le stesse clausole dotate dell’effetto tipico della norma, quello performativo-semplice ossia teso a performare le condotte dei consociati. Diversamente, i principi esplicano i loro effetti solo all’interno delle dinamiche ordinamentali e sono, pertanto, norme di tipo performativo-costitutivo, laddove, però, la performance è attesa non tanto da parte dei consociati ma dello stesso ordinamento giuridico. Da questa stessa destinazione (unitamente alla priorità della componente assiologica del diritto su cui oltre) possiamo ricavare il criterio ermeneutico primario – sia per ragioni temporali che per ordine di importanza – della unità o coerenza assiologica del diritto che fa il paio al principio di uguaglianza sostanziale tale per cui l’introduzione all’interno dell’ordinamento giuridico di valori contrastanti con quelli già incorporati nell’architettura assiologica dello stesso è consentita solo quando vi siano contingenze tali da giustificare l’adozione di un sistema di governo delle stesse secondo rationes diverse da quelle già in uso. A titolo esemplificativo si riporta la vicenda dell’anatocismo bancario e la sua ultima fortunata svolta (con l’introduzione del divieto di cui all’art. 1283 c.c. anche nel nuovo art. 120 Tub) che ha messo bene in luce come il legislatore abbia per molto tempo violato il criterio di unità o coerenza assiologica senza poter invocare la necessità di trattare in modo diverso i diversi, poiché niente giustificava il maggior favore dimostrato fino a ieri alle banche e agli intermediari finanziari rispetto al creditore pecuniario comune. Sotto l’ulteriore profilo dell’attività richiesta all’interprete al fine di dare applicazione alle forme della generalizzazione così individuate, la differenza è notevole. Mentre, infatti, le regole richiedono di norma una mera operazione sussuntiva – di riconduzione del fatto alla fattispecie sotto il profilo fattualedescrittivo – le clausole generali e i principi implicano un attività diversa e più complessa, dovendo in primo luogo l’interprete riempire di senso il valore dalle stesse incorporato per poi procedere ad una verifica di compatibilità tra il fatto com’è e il fatto come doveva essere. Questa operazione si sostanzia: 1) nella comprensione dello scopo perseguito dal soggetto con la condotta posta in essere; 2) in una presa di coscienza della propria idea del valore (ossia di quei comportamenti verosimilmente rispondenti alla finalità incarnata dal valore); 3) in una verifica preventiva circa la conformità della propria idea a l’idea oggettiva di quel valore; 4) ad un giudizio di preferibilità o meno della condotta posta in essere dal consociato rispetto al valore sulla base di un criterio di verosimiglianza; 5) ad una verifica di condivisibilità degli effetti che discendono dall’applicazione della norma così ricostruita. I passaggi 1), 2) e 3) sono (o dovrebbero essere) normalmente assorbiti dalla previa educazione della precomprensione dell’interprete; il passaggio 4) quando il giudice interpreta una regola è caratterizzato non dalla logica della preferibilità ma da quella della doverosità risultandone di molto diminuito il margine di verosimiglianza della qualificazione giuridica del fatto e, di conseguenza, il lasso di controvertibilità della decisione; il passaggio 5) nelle regole non è quasi mai necessario ferma restando la possibilità che un fatto astrattamente riconducibile a diverse fattispecie venga inquadrato all’interno di quella produttiva degli effetti maggiormente condivisibili. Questa ricostruzione aiuta a mettere in luce come componente minima essenziale del diritto sia non la componente descrittiva propria delle regole e neppure quella performativa-semplice associata alle stesse ma la componente assiologica. Come a dire che l’ordinamento ben potrebbe reggersi solo su indicazioni di massima, orizzonti di scopo, ma non potrebbe definirsi tale senza di essi. E, poiché il valore risiede nel fatto (o, meglio, in quella sua componente caratterizzata dalla volizione umana ossia l’atto), quest’opera di riconduzione ad unità del Sein e del Sollen dal punto di vista finalistico non può che partire dal fatto per estrapolarne la componente valoriale (o, meglio, la “natura”) e verificarne la rispondenza rispetto all’architettura assiologica dell’ordinamento sulla base del logos. Da ciò l’idea del diritto come scienza analogica che opera, cioè, attraverso (ana) il linguaggio (logos). Questa caratterizzazione essenziale del modo d’essere del diritto non va intesa nel modo attualmente in voga presso i linguisti – fin troppo inclini al nichilismo e alla mortificazione del dover essere, ridotto a mero argomento – ma è utile a risolvere alcune tematiche di rilevanza pratica come, esemplarmente, la questione della dicotomia tra regole di validità e regole di responsabilità in uno con la riconducibilità alla violazione della buona fede di rimedi invalidatori. Perché alla buona fede non sono associabili effetti invalidanti? Non per ragioni formalistiche ma perché gli stessi effetti – che fanno sparire ciò che fino ad un attimo prima c’era – sono il frutto del “linguaggio della magia” cioè di quel linguaggio che realizza sia l’intrinseco che l’estrinseco del detto nell’atto del dire. Il linguaggio della magia è tipico dei soli performativi-costitutivi, di quelle norme, cioè, che sono destinate a produrre effetti nel solo sistema a cui appartengono, come i principi generali, le norme abrogatrici, quelle relative all’iter legislativo, le norme attributive della personalità giuridica, etc. Questi i confini dell’ambito di operatività delle varie forme della generalizzazione che è indispensabile rispettare ai fini della sopravvivenza del sistema perché la praticità, che pure è attributo fondamentale del diritto, non può tradursi in fenomeni autodistruttivi della sua architettura. La buona fede, dunque, al pari delle altre clausole generali è destinata a mantenere l’apertura cognitiva del sistema giuridico dal punto di vista valoriale, introitando bisogni che, pur non riconcettualizzati dal legislatore, presentano nel sistema di appartenenza “naturale” (morale, mercantile, religioso, etc.) quel grado di oggettivizzazione ed astrazione che deriva loro dalla larga condivisione del giudizio di preferibilità delle condotte che li concretizzano e che ne integrano il senso. Così, potremmo dire, l’intercomunicazione tra sistemi avviene sempre su di un piano che lungi dal soffrire l’incertezza dell’arbitrio garantisce una coerenza di massima tra le scienze umane organizzate a sistema nei limiti di interferenza reciproca. Ciò che non significa che per il tramite delle clausole si introitano nel diritto elementi che questo a inteso escludere, al contrario: quando si ha a che fare con queste forme della generalizzazione la giuridica rilevanza di valori extrasistemici è in re ipsa poiché le clausole (al pari dei principi) svolgono originariamente proprio questa funzione (essendo però destinate – al contrario dei principi – ad orientare in prima battuta le condotte dei consociati). Chiaro è che quest’opera di ricezione giuridica è possibile nei limiti in cui la stessa non si traduca in una negazione di valori già inglobati nel sistema-diritto poiché, diversamente ragionando, si finirebbe per legittimare un’opera di decostruzione ex post (cioè ad opera del giudice chiamato a concretizzare le clausole stesse) del complessivo impianto assiologico o finalistico del sistema in violazione del criterio primario di unità o coerenza assiologica, che legittima questa operazione solo al ricorrere di esigenze di uguaglianza sostanziale. Il contenuto minimo inderogabile delle clausole generali è, pertanto, un contenuto riflesso rispetto alla carica valoriale dei principi che, secondo le circostanze del caso, ben può esaurirsi (ma non necessariamente si esaurisce) in una “mera” ripetizione dell’uno o dell’altro secondo il meccanismo proprio della c.d. indirekte Drittwirkung. La particolarità della buona fede risiede nell’essere la stessa priva del corredo performativo che, abbiamo detto, essere caratteristica finalistica essenziale del diritto. Ciò che comunque non vale ad escluderne l’immediata precettività. In altri termini: stando al dettato positivo i consociati sanno che devono comportarsi secondo buona fede ma non sanno né cosa ciò esattamente significhi né cosa la violazione dell’obbligo comporti. Dottrina e giurisprudenza hanno elaborato delle funzioni tipiche della buona fede, sussumibili in tre macrocategorie: integrativa, valutativa e interpretativa, affrontate nel terzo capitolo. La prima è destinata ora a indirizzare la poiesi del debitore verso la permanenza della possibilità della prestazione ora a forgiare il rapporto obbligatorio secondo un modello minimo inderogabile dello stesso che è essenzialmente votato alla protezione. La seconda è finalizzata ora ad evitare condotte opportunistiche (abuso del diritto) ora a sospendere l’efficacia coercitiva dell’obbligo dinnanzi a preminenti esigenze della persona debitrice (inesigibilità). La terza è, infine, deputata ora ad orientare in senso antiformalista la condotta dell’interprete di quel sotto-sistema normativo (o a normazione derivata) che è il contratto, coerentemente con l’impianto assiologico derivato dello stesso, ora a risolvere in via principale ed immediata il problema delle sopravvenienze. Queste le funzioni a cui si associano altrettanti rimedi, tutti operanti direttamente sul rapporto obbligatorio: ampliamento dell’area della coercibilità, paralisi del diritto, illegittimità della condotta, etc. Ciò che non significa che la buona fede non rilevi anche in punto di fattispecie ma, per far ciò, la stessa deve coincidere con l’uno o con l’altro elemento della stessa. Abbiamo visto più sopra il rapporto tra neoformalismo e buona fede e la possibilità di una coincidenza di soluzioni tra i giudizi di valore operati per il tramite dell’elemento causale e quello operati per il tramite della buona fede. Senz’altro tra regole di fattispecie e regole di responsabilità rimane ferma la distinzione finalistica primaria tale per cui le prime sono funzionali all’edificazione del regolamento contrattuale (performativi-costitutivi) e le seconde sono dirette ad orientare le condotte dei privati in un’ottica di tipo programmatico (performativi semplici). Tuttavia, tale distinzione né vale ad escludere che il valore evocato dalla causa (come scopo del contratto) e quello evocato dalla buona fede coincidano; né, quando si tratti di obbligazione senza prestazione, appare così marcata, posto che in tale contesto la buona fede dismette la sua veste di performativo semplice per assumere le sembianze di un performativo-costitutivo. Al fine di una esatta comprensione del fenomeno, la prima domanda a cui è necessario rispondere è perché sussiste quest’obbligo di comportarsi secondo buona fede ossia qual è il bisogno cui la buona fede è destinata a dare risposta. Al contrario delle altre clausole generali, che identificano con sufficiente chiarezza il sistema all’interno del quale nasce il bisogno rilevante anche per il sistema-diritto (ad es. il buon costume che individua il sistema-costume al fine di ricavare il criterio di preferibilità) la buona fede è più sfuggente inducendo a ritenere che il sistema di riferimento possa essere ora l’uno ora l’altro a seconda del contesto in cui si colloca il rapporto obbligatorio. Tratto essenziale della buona fede è, quindi, la sua pertinenza all’obbligazione il cui substrato materiale è indice rivelatore del luogo in cui attingere il valore ossia l’astrazione oggettivizzata di quelle condizioni positive d’esistenza che sono gli interessi individuali, selezionati come utili o dannosi sulla base di un criterio di preferibilità delle condotte rispetto al buon esito del rapporto obbligatorio cui inerisce espresso dalla più parte degli individui operanti nel sistema di riferimento. Dal punto di vista funzionale, l’istituto “buona fede” fondante l’obbligazione senza prestazione è, quindi, deputato a proteggere le persone coinvolte in una relazione (stabile e orientata ad uno scopo) essendo la protezione stessa il minimo finalistico del diritto; dal punto di vista assiologico, il valore “buona fede” atto ad indicare il criterio di preferibilità ben può variare a seconda del contesto fattuale in cui matura la relazione, ferma restando la pertinenza della buona fede al rapporto obbligatorio e, dunque, la sua natura di “programma di scopo”. Quando la buona fede opera in senso costitutivo la sua differenza rispetto alla causa sfuma nel senso che l’istituto “buona fede” sta all’obbligazione senza prestazione come l’istituto “causa” sta al contratto. Resta fermo, però, il rapporto di reciproca esclusione tra l’una e l’altra (poiché dove c’è contratto non c’è obbligazione senza prestazione) e la duplice natura della buona fede che, anche quando costituisce, rimane pur sempre (anche) norma programmatica. Infatti, se l’analogia regge con riferimento alla funzione dell’istituto giuridico non vi sono margini di sorta per appiattire la buona fede sulla causa (o viceversa) posto che l’una è naturalmente proiettata verso il futuro e vive esclusivamente in una dimensione dinamica, sia quando si fa portatrice di valori incarnati dai principi giuridici (anch’essi ontologicamente dinamici) sia quando recepisce valori extra-giuridici; l’altra (la causa) è funzionale a fotografare una data situazione indicando una volta e per sempre lo scopo cui condotte predeterminabili a priori devono orientarsi. Per quanto attiene allo scopo incarnato nella buona fede, la questione è diversa. Non c’è un tempo o una situazione di fatto che la buona fede cristallizza una volta e per sempre indicando le condotte “dovute” e quelle escluse dall’alea di coercibilità. La buona fede opera a ridosso del bisogno nel momento in cui lo stesso bisogno emerge e, in quanto tale, è norma autenticamente rimediale. Essa buona fede – tramite costitutivo di quel minimo giuridico rappresentato dall’obbligazione in funzione protettiva “pura”, senza il corredo della prestazione – veste di dignità giuridica quei valori che, in quanto tali, pur non ancora giuridicizzati hanno già subito una oggettivizzazione secondo le logiche del sistema cui naturalmente appartengono. Questa traslazione della “tensione verso un fine” dalla sua forma soggettiva e concreta di interesse a quella oggettiva e ideale di valore ne garantisce l’epurazione perché è sintomatica di condivisione sociale (che a sua volta esclude l’arbitrio) condizione primaria di esistenza della normatività. Quanto detto induce una ulteriore considerazione per quanto attiene alla diversa problematica del bilanciamento. Ci si chiede, cioè, se il bilanciamento possa riguardare i valori o se sia un fenomeno relativo ai soli interessi: nell’un caso, infatti, la nozione di valore come entità oggettiva non vale ad escludere l’arbitrio del giudice, chiamato a “bilanciare” e quindi, in buona sostanza, a “creare” il criterio discriminante tra condotte utili o dannose; nell’altro caso, viceversa, l’arbitrio riguarderebbe i soli giudizi in cui vengono in rilievo gli interessi nella loro soggettività ossia quelli equitativi. Senz’altro gli interessi subiscono un’opera di bilanciamento che, ricorrendo le stesse condizioni di fatto, permette di distinguere tra interessi condivisi, tramutabili in valori, e interessi particolari, destinati a rimanere tali perché incapaci di superare il vaglio della condivisione. Tale discernimento, però, lo si è detto più volte, non compete direttamente all’interprete ma è in re ipsa posto che i valori partecipano della natura oggettiva propria di ogni forma di decisione collettiva. Gli interessi possono essere bilanciati dall’interprete solo quando è chiamato a decidere secondo equità, compiendo in prima persona l’opera di selezione che normalmente compete alla “più parte” degli individui appartenenti ad un sistema. I valori possono anch’essi essere bilanciati solo quando si tratti di interpretare secondo i principi generali dell’ordinamento poiché, in questo caso, la giuridicità dei valori incorporati nella forma della generalizzazione in parola non consente di discriminare tra l’uno e l’altro principio. Quando, invece, l’opera ermeneutica si compie per il tramite di una clausola generale il bilanciamento non entra in gioco poiché l’assenza di veste giuridica rispetto al valore extra-sistemico impone al giudice di compiere una scelta tra l’uno e l’altro fine in base alla maggiore o minore condivisione dello stesso da parte dei consociati ossia in forza della maggiore o minore capacità inclusiva dei valori rispetto agli interessi individuali in gioco. Così, l’interazione sistemica può avvenire senza il rischio di arbitri e soggettivismi garantendo al sistema-diritto una costante tensione evolutiva assieme ad un’apertura cognitiva estesa tanto ai fatti (apertura cognitivo-descrittiva) quanto ai valori portati dagli atti (apertura cognitivo-assiologica). Ciò che non implica un abbandono a qualsivoglia pretesa dirigista: il diritto, sia chiaro, in una certa misura dirige poiché altrimenti (verrebbe da dire) sarebbe privo di “personalità”. La personalità, le idee del diritto sono i suoi valori, espressi nei principi generali, che non sono confinati in una forma della generalizzazione posta in posizione apicale solo per essere privata di ogni effetto performativo in una sorta di maestosa solitudine. I principi generali, pur non immediatamente precettivi nei confronti dei consociati, manifestano tutta la loro forza performativa nei confronti del diritto stesso e di chi è chiamato ad operarvi. Legislatore e giudice, primo e secondo interprete, sono entrambi chiamati a darvi attuazione, l’uno ponendo il jus in conformità agli scopi delineati dai principi (potendo discostarsi da essi o introdurne di nuovi solo in presenza di ragioni di uguaglianza sostanziale, in virtù del canone ermeneutico primario dell’unità o coerenza assiologica); l’altro creando il directum attingendo al substrato assiologico complessivo del sistema giuridico (ossia interpretando la norma in conformità al valore portato da essa riguardato in un’ottica sistematica). Ciò è tanto più vero proprio quando l’interprete è chiamato a maneggiare forme della generalizzazione puramente assiologiche immediatamente precettive: in questo caso, infatti, i principi si frappongono all’opera di giuridicizzazione ex post del valore tutte le volte in cui questo stesso valore si traduca in una finalità contrastante con quelle espresse dai principi. Il diritto, cioè, per il tramite di quella che abbiamo chiamato indirekte Drittwirkung opera in autotutela negando l’ingresso a valori che frustrerebbero quelli già incorporati nel sistema. Ma vi è un’altra applicazione della indirekte Drittwirkung che è resa particolarmente evidente proprio dalla buona fede: ossia la sua capacità di dotare la relazione nata da un affidamento qualificato della struttura dell’obbligo in funzione protettiva della persona. Il riferimento è, ovviamente, alla categoria della obbligazione senza prestazione in cui la stabile relazionalità tra individui, caratterizzata dalla comunanza dello scopo, ingloba le ragioni della persona all’interno delle dinamiche dell’obbligazione riconoscendogli giuridica rilevanza. In questo caso: i) in origine vi è una relazione; ii) la quale relazione assurge a stabile relazionalità quando vi è una comune tensione verso un fine; iii) dalla stabile relazionalità deriva un legittimo reciproco affidamento; iv) il quale legittimo affidamento solletica la buona fede; v) una volta attiva, la buona fede giuridicizza gli interessi delle parti in gioco a patto che questi siano compatibili con il complessivo impianto assiologico giuridico; vi) la lesione degli interessi così giuridicizzati genera responsabilità. Il rapporto obbligatorio così nato è privo del corredo della prestazione e non segue, perciò, le logiche incrementative che gli sono proprie. Tale è la ragione per cui l’obbligazione senza prestazione svolge una funzionalità meramente protettiva degli interessi in gioco, in linea con lo scopo minimo del diritto che è quello di “proteggere” individui interagenti. Quindi, se l’obbligazione è priva della prestazione la buona fede la caratterizza assiologicamente in senso conservativo; se invece l’obbligazione è complessa ed arricchita della prestazione, la dimensione assiologica della buona fede identifica come preferibili le condotte finalizzate non solo alla protezione del valore riferibile alla stessa ma anche al suo accrescimento. Il che ci suggerisce di ritenere che, in effetti, la logica protettiva della buona fede fondate l’obbligazione senza prestazione risieda nell’art. 1175 c.c. e che tale obbligazione si distingua da quella complessa rispetto alla quale l’integrazione ex fide bona, seguendo le logiche incrementative del contratto, ben può spingersi oltre alla mera protezione includendo nel parteur degli obblighi a carico delle parti anche condotte preferibili non nell’ottica precauzionale (rispetto al potenziale danno) propria dell’art. 1175 c.c. ma nell’ottica incrementativa ricavabile dalla prestazione, ferma restando la regola di verosimiglianza comune tanto all’obbligazione senza prestazione quanto agli obblighi accessori alla prestazione. In questo senso, quindi, l’integrazione del contratto passa attraverso il criterio selettivo naturale della causa dello stesso in quanto identificativa del valore perseguito dalle parti inquadrato, però, in una logica di accrescimento delle sfere individuali e non di mero mantenimento delle stesse, come accade invece nell’obbligazione senza (ossia a prescindere dalla) prestazione. Se poi vi debba essere una necessaria coincidenza tra il minimo costitutivo dell’obbligo di protezione ed il minimo performativo del risarcimento (per danni) è un’altra storia. L’assenza di una esplicita previsione positiva in tal senso in uno con le caratteristiche già viste della buona fede induce a ritenere che la stessa sia qualificabile come una forma della generalizzazione ad attitudine rimediale e che, quindi, individuato il valore di riferimento lo stesso possa essere coperto da ogni tutela normalmente posta a corredo dell’obbligo. Perché altrimenti sforzarsi tanto di sottrarre alle logiche aquiliane ambiti che tradizionalmente gli sarebbero propri? L’inversione dell’onere probatorio è poca cosa, specie se si considera che la stessa inversione si verifica anche in materia extracontrattuale in tutte quelle ipotesi, tutt’altro che residuali, di c.d. responsabilità oggettiva. Vero è che il giudizio di verosimiglianza, per sua stessa natura, presuppone la presenza di più alternative tra le condotte preferibili (in quanto non dannose) e, quindi, la coercibilità delle stesse non può assurgere ad attributo astratto e generale dell’obbligazione senza prestazione ma dipende dalla incontrovertibilità del giudizio di verosimiglianza che è, però, un ossimoro poiché la verosimiglianza incontrovertibile è certezza. Potremmo quindi azzardare la seguente conclusione: l’obbligazione senza protezione che si fonda sulla buona fede in funzione protettiva si presume assoggettata alle regole di verosimiglianza e non è, perciò, coercibile; questa presunzione può però essere superata in base ad un giudizio in concreto che, in relazione a tutte le circostanze specifiche del caso, accerti come preferibile un’unica condotta che diventa, perciò, coercibile. Certo è che questa soluzione è praticabile solo a patto di ritenere la “pretesa” attributo non della prestazione ma dell’obbligo, con le inevitabili ricadute sociali in termini restrittivi delle liberta individuali che questo slittamento comporta e sul presupposto che criterio distintivo tra l’una (prestazione) e l’altro (nella sua forma autonoma di obbligazione senza prestazione) sia non tanto la maggiore o minore “debolezza” in termini rimediali ma la sola funzionalità, rispettivamente incrementativa o conservativa della sfera personale dei soggetti agenti. L’etimo in questo caso ci offre indicazioni contrastanti, posto che prae (avanti) tendere (tendere) da un lato richiama quella tensione verso uno scopo che è la caratterizzazione propria dell’affidamento “fecondo” ossia capace di generare l’obbligazione senza prestazione; dall’altro lato identifica proprio quell’aspirazione all’avere che discende dall’essere, la cosa desiderata, oggetto di una forma della generalizzazione strutturata secondo il tipo “diritto soggettivo”. D’altronde, abbiamo visto come la buona fede in funzione valutativa sia capace di paralizzare temporaneamente la pretesa o di contenerne la tensione finalistica ma non di farla venire meno. Una volta costituita, pertanto, la pretesa prevale rispetto alla tensione performativa della buona fede, salvo adeguamenti sincronici tra forma e sostanza; di conseguenza, in assenza della stessa pretesa, ritenere che la buona fede costituisca ciò che altrove non è capace di destituire sconta una certa dose di contraddizione ed è, quindi, più saggio mantenere una corrispondenza tra l’essenzialità costitutiva del diritto – che si manifesta per il tramite della buona fede come fonte dell’obbligazione senza prestazione – e l’essenzialità performativa dello stesso – garantita dalla tutela risarcitoria.
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T - Tesi di dottorato

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