Please use this identifier to cite or link to this item: http://hdl.handle.net/2307/435
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dc.contributor.advisorCalcaterra, Rosa Maria-
dc.contributor.authorLuisi, Maria-
dc.date.accessioned2011-06-15T10:05:22Z-
dc.date.available2011-06-15T10:05:22Z-
dc.date.issued2009-04-24-
dc.identifier.urihttp://hdl.handle.net/2307/435-
dc.description.abstractPer mettere a confronto il pensiero di Charles Peirce e Edmund Husserl occorre tenere conto del punto di partenza dal quale i due autori iniziarono il loro percorso filosofico. Entrambi dedicarono le loro prime ricerche alla logica così da poter fornire nuove basi alla filosofia, basi che fossero più salde di quelle che i grandi sistemi metafisici avevano costruito nei secoli. Peirce elaborò una logica imponente che determinò tutto il suo pensiero, mentre Husserl si occupò di questi problemi nelle prime opere e in particolare nelle Ricerche Logiche. C'è un tema in particolare sul quale le loro indagini mostrano una grande affinità ed è quello dello statuto dei generali. La logica antica e medievale era dominata dal dibattito sulla realtà degli universali. Platone, Aristotele e gli stoici posero le basi per quella che in età medievale divenne la disputa tra realisti e nominalisti. Secondo i realisti i concetti universali esisterebbero a tutti gli effetti, mentre i nominalisti, forti di principi quali il rasoio di Ockham, sostengono che tali enti non possano esistere e siano pure funzioni logiche utilizzate dal pensiero per assolvere le sue funzioni. Entrambe le posizioni presentano diversi problemi, perché se da un lato è difficile giustificare lo statuto ontologico che i realisti vorrebbero assegnare agli universali, d'altro canto non è sufficiente ridurre i concetti universali a pure funzioni linguistiche, perché così facendo non si riesce a comprendere come possano agire tanto profondamente sulla realtà. In questo contesto è particolarmente interessante la figura di Duns Scoto che, attraverso i concetti di hecceitas e quidditas, elabora un'ipotesi che riesce a giustificare tanto gli universali quanto gli individuali. Inoltre, sempre Duns Scoto pone al centro della sua teoria della conoscenza il concetto di intenzione, che la fenomenologia utilizzerà traendo spunto proprio dalla filosofia medievale. Il dibattito sui concetti generali riprende in età moderna con l'empirismo inglese. Locke, Berkeley e Hume sostengono che l'unica base certa per la conoscenza siano le sensazioni. Da esse nascono le idee semplici della mente e combinando le idee semplici si formano le idee complesse attraverso le quali il pensiero svolge la sua attività. Secondo l'empirismo, allora, gli universali non sono altro che il frutto della capacità astrattiva del pensiero il quale, a partire da un gruppo di sensazioni, riconosce un carattere comune e immagina che tale carattere possa esistere veramente. In realtà non è possibile trovare nessun oggetto sensibile che corrisponda al "rosso" o alla "giustizia"; questi sono solo nomi che vengono creati per astrazione e reificarli rappresenta un errore logico. Husserl critica una simile riduzione dei generali nella seconda delle Ricerche Logiche, dove sostiene che ridurre i generali a strumenti dell'economia del pensiero sia assurdo. È vero che quando osserviamo degli oggetti e astraiamo un loro carattere comune, quel carattere non assume un'esistenza separata, ma ciò non vuol dire che allora non esista affatto. L'astrazione non può neppure essere ridotta a una forma di attenzione o di rappresentanza. Se si applicano simili semplificazioni non ci si accorge che senza concetti generali non è possibile spiegare la maggioranza delle operazioni del pensiero. La mente costruisce continuamente giudizi a partire da concetti universali e ciò che questi ultimi esprimono non può essere ridotto in alcun modo a una somma di individuali, per quanto grande possa essere. L'universale è in grado di abbracciare un insieme infinitamente grande di elementi in un'unica pulsazione, in un atto istantaneo; tale capacità non può essere spiegata se non si ammette l'esistenza della generalità. Peirce scrisse nel 1871 una recensione all'opera completa di Berkley pubblicata da Fraser, nella quale si può trovare una difesa altrettanto decisa della realtà degli universali. Secondo Peirce l'errore fondamentale di Berkely e Locke consisterebbe nell'aver ridotto il soggetto a uno stato di isolamento completo dal mondo, del quale riceverebbe solo delle informazioni parziali attraverso i sensi. Se si assume una simile visione dell'uomo diventa impossibile capire la natura dei generali e viene negata la loro realtà solo perché non è possibile averne un'impressione diretta. Eppure, come si può negare che tali concetti agiscano realmente nel mondo? La legge di gravitazione, ad esempio, è un generale che determina in modo sostanziale il nostro comportamento e non abbiamo nessun dubbio che continuerà a esercitare la sua azione anche in futuro. Nessun infatti si stupirebbe se, lasciando andare un oggetto che teniamo in mano, esso cadesse al suolo. Come si può affermare, allora, che un concetto che ci permette di formulare previsioni sul futuro che vengono puntualmente confermate dagli eventi non esista? Secondo Peirce, non solo i generali sono reali, ma lo sono a maggior titolo degli individuali. Questi ultimi, infatti, impongono la loro esistenza in modo brutale, mentre gli universali permettono di scoprire le leggi che governano l'universo stesso e quindi di conoscere la sua essenza profonda. Occorre comprendere, però, quale idea di realismo permetta a Peirce e a Husserl di sviluppare una simile concezione della realtà. Infatti, la loro posizione è in netto contrasto con il nominalismo ma non può neppure essere assimilata al realismo classico. Ciò che distingue Peirce e Husserl dalla contrapposizione nominalismo/realismo è la concezione del rapporto che lega la mente e il mondo. Lo scopo delle loro analisi non sta nel cercare di capire se gli universali risiedano nella mente oppure abbiano un'esistenza esterna reale. I generali non vanno cercati né "dentro" la nostra testa né "fuori" tra gli oggetti concreti; e questo non perchè la loro natura sia di un terzo tipo, diverso e intermedio tra entità psichiche e fisiche, ma perché non esiste alcuna barriera invalicabile che divida la coscienza dal mondo. Con ciò non si vuole dire che non esista differenza tra il mondo esterno e quello interno alla mente, tra i pensieri e gli oggetti concreti. Il punto decisivo è che la conoscenza inizia sempre come rapporto diretto con il mondo, con la realtà in quanto tale e non con una sua proiezione più o meno fedele creata dalla mente. Il cuore di tale concezione sta quindi nel riportare al centro la relazione tra il soggetto e l'oggetto conosciuto. Questa novità nel modo di concepire il rapporto coscienza-mondo permette a entrambi i filosofi di eliminare il problema della "cosa in sé" kantiana e di reimpostare il rapporto tra trascendenza e immanenza a partire dalla nozione di fenomeno. Non esiste l'essere come entità statica e sempre uguale a se stessa verso il quale la mente cerca di gettare dei ponti per entrarvi in contatto; il rapporto tra questi due elementi è già sempre in atto e li costituisce entrambi. Il secondo capitolo è dedicato all'approfondimento del realismo peirceiano e alla descrizione della sua fenomenologia. Come si è osservato in precedenza, Peirce ritiene che gli universali siano reali a maggior titolo degli individuale e questo deriva dalla sua particolare concezione di realtà che è legata al tema della continuità. Il padre del pragmatismo, come è noto, identificava tre categorie fondamentali che fungono da base per tutta la realtà. La primità, chiamata anche qualità, la secondità, o reazione, e la terzità, o rappresentazione. Gli oggetto individuali appartengono alla seconda categoria, in quanto la loro esistenza consiste nella semplice reazione. Essi non sono oggetto di una rappresentazione che permetta di comprendere la relazione che li lega al resto dell'universo ma fanno forza sul soggetto senza rispondere a nessun ordine apparente. Le leggi universali, al contrario, non possiedono una simile brutalità ma consentono di comprendere quale sia la struttura profonda della natura e di regolare le proprie azioni di conseguenza, per questo sono reali a maggior titolo degli individuali. Se la terzità rappresenta la realtà nella sua vera essenza, la continuità, che per Peirce è il livello più autentico della terzità, è il vertice del reale. La realtà nella sua massima espressione coincide con il continuo, dunque la realtà in senso pieno è una dimensione nella quale la mediazione ha raggiunto un grado così elevato da aver eliminato ogni distinzione. Peirce chiama la sua teoria col nome di "sinechismo" e essa implica che non possano esistere confini rigidi tra i singoli individui. Se si osserva la natura profonda delle cose, si scoprirà che non esistono dati bruti perché ogni fatto è un segno che rimanda a una segno ulteriore, prendendo parte a una catena semiotica infinita. Da qui nascono le tesi anti-intuizioniste di Peirce, la sua certezza nella verità che si svelerà nel futuro per la comunità degli interpretanti, la sua teleologia. Teorie simili nascono da profondi studi semiotici e matematici ma sembrano essere difficilmente conciliabili con l'esperienza. Infatti, per quanto si possa ammettere l'importanza della rappresentazione per la conoscenza, le nostre percezioni comuni testimoniano un mondo fatto di oggetti individuali che agiscono direttamente sulla mente e ne influenzano le credenze. Per rispondere a questi interrogativi, che possono essere ricondotti all'antica disputa sul principium individuationis, Peirce ritenne di dover analizzare più attentamente la componente pre-semiotica del reale. Intorno al 1880-90 non si accontentò più delle tesi giovanili sulla semiosi infinita e si rese conto che, riducendo tutto alla rappresentazione, sarebbe stato impossibile spiegare il progresso continuo della conoscenza e la sua capacità di acquisire nuove informazioni. Se ogni cognizione fosse prodotta sempre e solo da una cognizione precedente, la mente dovrebbe essere prigioniera di se stessa, eppure ciò non accade. Evidentemente, allora, deve esistere uno strato pre-semiotico nel quale la mente conosce il mondo senza possederne ancora un rappresentazione adeguata. Da qui nasce la teoria degli indici in campo semiotico e la fenomenologia per affrontare lo studio dell'esperienza. Questo genere di studio non produce conoscenza in senso pieno, perché essa si realizza solo attraverso la mediazione e la rappresentazione, quindi attraverso i simboli; si tratta, però, di una fase che è necessario attraversare perché il rapporto col mondo non resti una pura illusione, intrappolato nei confini stessi del soggetto. La fenomenologia, o faneroscopia, identifica tre categorie sempre presenti in ogni fenomeno, chiamate firstness, secondness e thirdness, modellate sulle classiche categorie descritte in On a new list of categories del 1867. Il problema del principium individuationis declinato in senso fenomenologico diventa allora il problema del rapporto tra la seconda categoria (chiamata anche "lotta", con la quale si intende il colpo brutale che riceviamo dall'esperienza ogni volta che essa non si conforma alle nostre aspettative) e la terza (detta anche "legge", che indica una generalità riconosciuta nei fatti e capace di riportare ordine e spiegare le relazioni tra i singoli eventi). In Telepathy del 1903 Peirce studia questo problema nel caso particolare dei fenomeni percettivi. Questi sono composti da una parte totalmente incontrollabile dalla coscienza chiamata "percetto", dotata di un contenuto positivo che si impone al nostro riconoscimento. Accanto a questa c'è la parte già interpretante chiamata "giudizio percettivo" che consiste nell'asserzione che inconsapevolmente formuliamo quando abbiamo un'intuizione. Si tratta a tutti gli effetti di un giudizio, con la particolarità che su esso non possiamo esercitare alcun controllo. Occorre però fare chiarezza su quale sia il rapporto tra queste due componenti della percezione e la soluzione che Peirce offre coinvolge il continuo temporale. Percetto e giudizio percettivo non sono in alcun modo riducibili l'uno all'altro ma si susseguono nel tempo in modo tale che non è possibile identificare il confine che li separa. Dato che il tempo è un fenomeno continuo, dunque legato alla thirdness, sembrerebbe che ancora una volta l'aspetto individuale, di "secondità" finisca coll'essere subordinato al dominio della mediazione della terza categoria. Quindi, per quanto la fenomenologia abbia rappresentato il tentativo di superare il dominio della mediazione, essa torna come elemento chiave nel cuore dell'esperienza percettiva stessa. Questo giudizio non è definitivo perché esistono manoscritti, in particolare quelli nei quali Peirce si occupa del tema dell'Esperienza e della Sorpresa, nei quali la componente brutale e individuale della conoscenza è considerata come l'unica fonte possibile di novità. Resta in ogni caso un problema aperto: Peirce sostenne per tutta la vita l'irriducibilità reciproca di secondness e thirdness ma di fatto il sinechismo sembra sancire il dominio della continuità e della rappresentazione mettendo in serio pericolo l'esistenza dell'individualità. La sezione dedicata a Husserl segue lo sviluppo di un tema in particolare all'interno della sua riflessione, vale a dire quello dell'evidenza. Questo concetto risulta centrale per la conoscenza perché la verità dei giudizi secondo il filosofo tedesco nasce dall'evidenza e l'evoluzione di tale nozione rispecchia l'evoluzione stessa della fenomenologia. Nelle Ricerche Logiche l'evidenza è trattata in termini piuttosto vicini a quelli cartesiani. I giudizi "chiari e distinti" delle Meditazioni metafisiche avevano la proprietà di essere evidenti in quanto la loro verità poteva emergere in modo inequivocabile e istantaneo. Un giudizio che fondasse la sua correttezza sul contesto o su una verifica distesa nel tempo non avrebbe potuto essere evidente. Per questo le percezioni esterne, essendo fallibili, devono essere escluse dalla conoscenza autentica. Lo stesso Brentano riprende quest'impostazione cartesiana e limita l'evidenza alla percezione interna; inoltre classifica i fenomeni psichici come intenzionali escludendo però le sensazioni che vengono comprese tra i fenomeni fisici. Husserl già nelle sue prime opere contesta questa classificazione e ricomprende le intuizioni nell'intenzionalità, tuttavia nelle Ricerche Logiche si può certamente notare una tendenza a limitare l'evidenza all'istante, come se la condizione per la chiarezza fosse l'eliminazione di ogni legame con altre impressioni. In questo senso le Lezioni per la fenomenologia della coscienza interna del tempo segnano un cambiamento radicale. Qui Husserl contesta ancora gli studi di Brentano e afferma che le esperienze di durata, come l'ascolto di una melodia, non possono essere spiegate attraverso l'azione della fantasia. Non è vero che l'esperienza è costituita da intuizioni istantanee colmate poi dall'immaginazione, perché se così fosse non si potrebbe spiegare come sia possibile avere percezioni che durano. Al contrario, gli oggetti stessi sono temporali e la coscienza che li percepisce è a sua volta distesa nel tempo. La percezione è un fenomeno stratificato che si arricchisce continuamente per azione della ritenzione, dunque la temporalità è una dimensione essenziale della nostra esperienza del mondo. Le Lezioni sulla sintesi passiva determinano un altro passo decisivo. Qui Husserl sviluppa l'indagine dell'esperienza ante-predicativa, vale a dire di quel campo nel quale l'intelletto non ha ancora operato le sue sintesi attive. Si tratta di un territorio spesso ignorato che costituisce il fondamento per tutti i livelli superiori della coscienza e in esso si costruiscono le basi del ragionamento logico in senso proprio. La peculiarità dell'esperienza ante-predicativa consiste nel fatto che le sue leggi non sono dominabili dal soggetto ma prendono forma autonomamente così che il soggetto si trova a riconoscerle quando sono già costituite. I fenomeni percettivi sono un terreno privilegiato per studiare il modo di operare di quest'attività sintetica passiva che Husserl studia prima di tutto dal punto di vista noetico, vale a dire dei semplici vissuti, senza considerare il problema dell'esistenza reale dell'oggetto. Nello studio dei vissuti si rivelano due generi di sintesi formali, quella temporale e quella associativa; esse pongono le basi per l'emergere dell'oggetto che si impone nel fenomeno dell'"affezione". L'affezione indica la tensione che la cosa esercita sulla coscienza per guadagnarne l'interesse e senza della quale l'esperienza resterebbe un flusso indeterminato di impressioni. Anche l'affezione precede ogni attività della coscienza; essa apre le porte alla "recettività" che è la prima forma di attività del soggetto. In effetti non si tratta propriamente di un'attività ma piuttosto di un'obbedienza al dato, di un'accettazione della sua essenza così come si dà. Da qui inizia il percorso che condurrà a tutte le forme attive di sintesi e di ragionamento. Qual è in questo contesto il ruolo dell'oggetto trascendente? Esiste o è solo una chimera, sul modello del noumeno kantiano? È già stato detto che il realismo husserliano non pensa l'oggetto come esterno e irraggiungibile, per questo la fenomenologia comincia dal fenomeno per conoscere il mondo, fondando quest'ultimo nella relazione intenzionale. D'altra parte Husserl non intende neppure scivolare nell'estremo dello scetticismo humeiano; osservare il fenomeno non significa ridurre tutto all'apparenza e negare ogni certezza alla conoscenza perché l'esperienza testimonia al contrario che una certezza è possibile. La conoscenza che attingiamo nella percezione non è definitiva ma può essere perfezionata, quindi l'oggetto trascendente non consiste in un'entità esterna ma nell'oggetto conosciuto nella sua verità che sarà raggiunta in un futuro indefinito. Si tratta di una verità impossibile da raggiungere in senso assoluto, ma che di fatto viene sempre sperimentata in alcuni aspetti parziali che Husserl chiama optima pratici. Nella prospettiva di un particolare interesse pratico accade di ottenere la migliore conoscenza possibile di un certo oggetto; se mutassimo prospettiva saremmo di nuovo costretti a riprendere il percorso di conoscenza, ma muovendoci di interesse in interesse il nostro percorso continua e l'oggetto si arricchisce di sfumature. Questo significa che la verità in senso definitivo non esiste o che è relativa all'interesse alla quale è suscitata? No, significa che la verità non è un concetto statico e sempre uguale a se stesso ma è in relazione con l'orizzonte intenzionale nel quale sorge. Per questo in Logica formale e trascendentale Husserl parla di verità come "intenzionalità vivente" nella quale l'evidenza non sorge come un lampo ma come un'operazione intenzionale. Nell'ultimo capitolo vengono prima ripresi i punti di affinità tra i due filosofi, frutto del lavoro d'analisi svolto nei capitoli precedenti, e in seguito è posto in evidenza il principale punto di discontinuità tra le due filosofie. Le affinità possono essere riassunte in quattro punti: a) Per entrambi non esiste un livello di pura sensazione. L'anti-intuizionismo peirceiano mostra questo con chiarezza, ma anche la teoria degli adombramenti in Husserl o la descrizione dell'unione tra intuizioni proprie e improprie che rendono la percezione un fenomeno "misto" nascono dalla stessa esigenza. Non ha senso andare in cerca del "puro dato" che fornisca una base per la conoscenza. b) La verità non è un fenomeno istantaneo, che impone la sua chiarezza una volta per tutte ma si rivela nel tempo. c) La verità non è solo legata alla dimensione temporale ma anche a quella comunitaria. Peirce al riguardo si esprime molto chiaramente parlando del sinechismo e della "verità pubblica". Husserl, d'altra parte, si occupò a lungo del fenomeno dell'intersoggettività come elemento essenziale per la costituzione del mondo e del soggetto. d) I punti precedenti potrebbero indurre a pensare che i due autori abbiano elaborato una teoria della conoscenza scettica o relativista, ma questo non è vero. Il punto decisivo per evitare tale deriva consiste nel fatto che per entrambi la struttura fondamentale dell'esperienza non è prodotta attivamente dall'intelletto ma è passiva. Il soggetto è chiamato, come prima forma di attività, ad accettare un dato che egli non ha prodotto intenzionalmente ma che si svela a lui come già strutturato. In Husserl questo emerge da tutte le analisi condotte nel terzo capitolo. In Peirce si trova un concetto molto simile in una serie di manoscritti del 1905-8. In generale, la seconda categoria rappresenta nella fenomenologia l'aspetto di passività, di ricezione dell'esperienza precedente a ogni elaborazione attiva. Tale categoria, tuttavia, appare spesso come un elemento necessario che tuttavia viene superato grazie all'intervento della thirdness. Negli ultimi anni, invece, Peirce tornò a lavorare sul concetto di Esperienza descrivendolo, questa volta, in termini nuovi. Essa è delineata come un elemento intermedio tra seconda e terza categoria e attraverso di essa il soggetto è spinto a cedere all'azione dell'universo. Non si tratta di un aspetto transitorio ma di un fattore stabile che dà forma alla conoscenza e consente la sua crescita continua. Peirce afferma che gli oggetti esercitano una tensione attiva sul soggetto per riguadagnare il loro feeling naturale e tale tensione costituisce la loro stessa essenza. Senza un elemento del genere la mente costruirebbe rappresentazioni autoreferenziali, mentre l'esistenza di un simile piano passivo garantisce che la nostra conoscenza sia guidata dall'universo stesso al quale dobbiamo solamente sottometterci. Nella seconda parte del capitolo viene approfondito il fattore che distingue radicalmente la fenomenologia di Peirce da quella di Husserl, vale a dire lo statuto del soggetto. Nel pensiero di Peirce anche la soggettività obbedisce alle leggi del sinechismo, dunque è un fenomeno continuo, è il segno più complesso che si possa formare. L'io è un simbolo che non è vincolato alla singolarità contingente dell'individuo attraverso cui si esprime. È una terzità che può appartenere anche a intere comunità di individui e in qualche modo anche all'intero universo. La natura triadica di tale fenomeno emerge con chiarezza nello sviluppo dei bambini, i quali iniziano a utilizzare la parola "io" in età molto avanzata, quando già sanno utilizzare il linguaggio per altri scopi. Secondo Peirce, questo dimostra che in loro è presente una soggettività ancora imperfetta, che richiede uno sviluppo ulteriore. Lo statuto simbolico del soggetto dimostra allora che l'io non è un'entità individuale ma generale; esso si incarna nei singoli corpi attraverso l'organismo, quindi può essere definito come una funzione dell'organismo stesso. Alcuni critici sostengono che l'io sia un'astrazione ipostatica che è messa in atto quando osserviamo alcuni abiti d'azione che ricorrono nel comportamento umano. "Like Pinocchio easily led astray, he [the person] is not yet quite real, but desperately wants to be.1 Queste considerazioni hanno spinto molti commentatori a definire "negativa" la concezione peirceiana dell'io e effettivamente i testi sembrano confermare tale opinione. In particolare vorremmo sottolineare due aspetti critici della teoria di Peirce: 1) Se si considera l'io esclusivamente come un simbolo, si nega che possano esistere delle sue manifestazioni pre-simboliche. Ora, esistono forme della soggettività, come l'autocoscienza o la capacità di auto-controllo, che sono certamente simboliche ma ciò non significa che non esistano altre espressioni dell'io. Ad esempio, se consideriamo noi stessi come centro di tutte le sensazioni che esperiamo, se teniamo conto del fatto che la nostra esperienza è sempre assegnata a noi senza possibili errori di riferimento, proprio attraverso le sensazioni, scopriremo una dimensione indicale dell'io. Io sono il "qui" ed "ora" delle mie impressioni, la mia esperienza si riferisce sempre a me stesso e a nessun altro, anche quando non sono auto-cosciente di me. In questo senso la soggettività è un indice, ma Peirce ignora totalmente questo campo di riflessione. Si potrebbe esprimere la stessa critica dicendo che Peirce utilizza il metodo fenomenologico in molti campi ma non in quello della soggettività, nei riguardi della quale si rifiutò sempre di considerare un livello pre-semiotico. 2) La seconda critica riguarda il momento sorgivo dell'io, che Peirce individua all'interno della seconda categoria quando introduce i concetti di ego e non-ego. Il soggetto non possiede dei confini definiti finché rimane nella pura primità, la sua identità emerge solo nel contrasto con qualcosa di diverso da lui che introduce un fattore di novità nella conoscenza. Tale coppia concettuale (ego/non-ego), tuttavia presenta una dualità solo apparente. I due termini in quanto tale possono essere ridotti al solo ego, poiché il non-ego è solo una negazione del primo; inoltre lo stesso Peirce in molti manoscritti conferma il primato dell'ego, affermando che il non-ego non é altro che l'ego che ancora non ha ricompreso se stesso. Questo fatto, tuttavia, indebolisce lo stesso ego, perché se il soggetto si definisce solo in rapporto con la diversità, ma quest'ultima dimostra di essere solo un'apparenza, anche l'integrità del polo soggettivo è compromessa. I problemi che nascono dalla teoria peirceiana del soggetto spingono a cercare nuove soluzioni. È stato chiarito che non si può ridurre il soggetto a un simbolo perché in questo modo non è possibile spiegare molte sue manifestazioni pre-semiotiche. Senza comprendere il livello indicale dell'io risulterà impossibile capire quello semiotico, per questo sono molto preziose le analisi di Husserl che studiò a lungo la soggettività nella sua dimensione pre-riflessiva. L'io pre-riflessivo è quel livello del soggetto che agisce normalmente in tutti gli atti quotidiani, ad eccezione di quelli riflessivi. Non si tratta necessariamente di un io passivo, perché esso è presente anche quando dirigiamo volontariamente l'attenzione su qualcosa. Negli atti pre-riflessivi l'io agisce ma il tema della sua azione non è lui stesso, bensì l'oggetto al quale si rivolge. Negli atti riflessivi, invece, l'io prende se stesso come tema del suo atto e diventa così auto-cosciente. Lo studio dell'io pre-riflessivo consente a Husserl di mostrare che la soggettività è presente e mostra alcuni tratti ben definiti anche quando non tematizza se stessa. I tre ambiti esemplari nei quali si rivela questo livello dell'io sono: a)la temporalità interna (in particolare il rapporto tra intenzionalità trasversale e longitudinale esposto nelle Lezioni per la fenomenologia della coscienza interna del tempo) b) la corporeità (dove con corpo non si intende il Korper, ma il Leib descritto in Ideen II) c) la percezione dell'altro (i due casi più significativi a questo proposito sono il fenomeno dell'affezione, che dimostra che l'attività sorge solo come risposta a uno stimolo esterno, e la nascita dell'io personale, che si realizza solo attraverso l'intersoggetività). Oltre la sfera pre-riflessiva, Husserl studia anche la natura degli atti propriamente riflessivi. Qui il soggetto non rimane più anonimo come nei fenomeni osservati prima, ma è posto esplicitamente a tema e così si rivela a se stesso. In realtà questo auto-svelamento non è mai totale, perché nell'atto riflessivo posso cogliere solo l'io appena trascorso e non quello che sta riflettendo nel momento attuale. In questo senso permane sempre un cono d'ombra che rende il soggetto oscuro a se stesso. La chiarezza aumenta solo in un caso particolare della riflessione che è l'epochè trascendentale. Essa si realizza quando cogliamo in un unico atto tutto il corso della nostra vita e, osservandola, sospendiamo la validità degli oggetti trascendenti in essa contenuti. Questa sospensione permette di cogliere la pura componente soggettiva che compone tutti gli atti della nostra esistenza e così si svela la "soggettività trascendentale". La soggettività trascendentale è descritta in diverse opere, spesso con tratti apparentemente contradditori, perché non è chiaro se Hussel la intenda come una funzione logica universale o come un'entità metafisica dotata di un'esistenza reale. Se si considera la trattazione di Ideen II, dove si parla di "io puro" sembrerebbe che la seconda ipotesi sia la più corretta, ma non ci si deve fermare a giudizi affrettati. Prima di tutto, per comprendere tale fenomeno occorre capire quale sia il suo aspetto fondamentale, cosa esso sia effettivamente. Come Husserl ribadisce in più occasioni, e in particolare in La crisi delle scienze europee, l'epochè trascendentale svela prima di tutto la correlazione intenzionale, dunque quest'ultima è anche il fattore dominante della soggettività trascendentale. L'io puro non è il cogito di Cartesio perché l'epoché non conduce a un soggetto vuoto, privo di mondo, ma al contrario è costituito dalla relazione col mondo. Questa precisazione è essenziale, anche se non risolve totalmente i problemi che derivano dalle tendenze "metafisiche" presenti in Ideen II. Qui l'io puro è descritto come immutabile, irriducibile ai fenomeni, increato e indistruttibile eppure assolutamente individuale, tanto che ciascuno ne possiederebbe uno proprio. La ragione della poca chiarezza delle spiegazioni husserliane è dovuta alla difficoltà del problema stesso. Husserl non intende rinunciare a due aspetti dell'io puro: - il primo è la sua universalità che lo rende identico per ogni uomo. La relazione intenzionale non determina solo certi vissuti, ma tutti e per tutti gli uomini. La sua importanza è tale che essa costituisce il mondo stesso, tanto soggettivo quanto intersoggettivo. - il secondo aspetto è la centralità del singolo "io" per l'indagine fenomenologica. Husserl non si accontenta di aver trovato un principio universale che spiega ogni esperienza, ma vuole ribadire che esso non può essere scoperto se non a partire dal proprio io individuale. Ciascuno deve cominciare la propria analisi da sé e dai suoi vissuti ed è la sua singola soggettività che aprirà le porte all'esperienza trascendentale. L'io di ciascuno, quindi, non è un'espressione imperfetta di una struttura universale, ma è il punto di partenza insuperabile per la fenomenologia. La difficoltà di conciliare questi due aspetti è la causa delle apparenti contraddizioni che si trovano nei testi husserliani. Quando prevale il primo aspetto, notiamo un accento idealista, quando prevale il secondo, la soggettività trascendentale appare come un elemento solo teorico e inessenziale per la sua filosofia. In realtà entrambi devono essere presenti per evitare i fraintendimenti nei quali lo stesso Husserl sembra cadere. Conclusioni L'ultimo capitolo ha mostrato che il rapporto tra individuale e generale resta uno dei problemi più decisivi per entrambi i filosofi considerati. Peirce scelse certamente per il generale e questo fece sì che l'individuale restasse un problema irrisolto nel suo sistema filosofico. La fenomenologia è la prova più evidente del fatto che egli non volle mai eliminare del tutto la singolarità e imporre il dominio incontrastato del continuo. Egli affermò tutta la vita che le tre categorie non potevano annullarsi tra loro ma era necessaria la loro compresenza per spiegare in modo soddisfacente la realtà. D'altra parte lo studio della soggettività lascia ben poco spazio alla secondness e le conseguenze in questo ambito sono molto gravi. I tre aspetti dell'io pre-riflessivo che Husserl sottolinea (tempo interno, corpo, rapporto con l'altro) restano tre fattori mancanti nella fenomenologia peirceina. Il padre del pragmatismo considerò la struttura del tempo interno della coscienza solo da una punto di vista matematico, e anche in questo non giunse a una soluzione chiara. Il corpo per lui fu sempre un organismo naturale e non gli fu mai attribuita alcuna peculiarità rispetto agli altri enti esterni. La percezione dell'altro fu sempre ricondotta in qualche modo al soggetto stesso. D'altra parte, come abbiamo visto, Husserl si occupò a lungo del soggetto pre-riflessivo, ma nelle sua analisi più complesse sul sofggetto trascendentale ebbe a che fare con il medesimo problema. La difficoltà di una fenomenologia, che comincia nell'io empirico e costituisce il mondo universale, consiste nel capire come possano convivere l'individualità e la generalità all'interno dello stesso soggetto.it_IT
dc.language.isoitit_IT
dc.publisherUniversità degli studi Roma Treit_IT
dc.titleVerso un realismo critico : esperienza e soggettività nelle fenomenologie di C.S. Peirce e E. Husserlit_IT
dc.typeDoctoral Thesisit_IT
dc.subject.miurSettori Disciplinari MIUR::Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche::FILOSOFIA TEORETICAit_IT
dc.subject.miurScienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche-
dc.subject.anagraferoma3Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologicheit_IT
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dc.description.romatrecurrentDipartimento di Filosofia*
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Appears in Collections:Dipartimento di Filosofia, Comunicazione e Spettacolo
T - Tesi di dottorato
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