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http://hdl.handle.net/2307/4225
DC Field | Value | Language |
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dc.contributor.advisor | Agosta, Antonio | - |
dc.contributor.author | Marrocco, Marzia | - |
dc.date.accessioned | 2015-04-11T20:57:03Z | - |
dc.date.available | 2015-04-11T20:57:03Z | - |
dc.date.issued | 2014-07-04 | - |
dc.identifier.uri | http://hdl.handle.net/2307/4225 | - |
dc.description.abstract | Negli ultimi anni il concetto di democrazia paritaria ed il tema della rappresentanza politica femminile hanno conosciuto una crescente attenzione all’interno del dibattito politico e pubblico internazionale, ma anche italiano. La ricerca è nata nell’ambito di una riflessione su come raggiungere l’effettiva parità tra gli uomini e le donne nei centri rappresentativi politici, aperta nel corso seminariale “Donne, Politica ed Istituzioni – promosso dal Ministero delle Pari Opportunità e dall’Università degli Studi “Roma Tre” – in seguito approfondita nel corso degli studi universitari, ed ha come obiettivo non tanto dibattere sulle ragioni di carattere politico o ideale dell’effettiva parità di genere, quanto piuttosto sugli strumenti prevalentemente di ordine normativo utilizzati per favorire un riequilibrio di genere nelle istituzioni rappresentative e di governo. Attraverso la storia delle politiche paritarie abbiamo evidenziato come le azioni positive nacquero nel contesto internazionale, dalle politiche dell’Organizzazione internazionale delle Nazioni Unite, e furono introdotte e perseguite dalla Comunità economica europea, prima, e dall’Unione europea in seguito, attraverso hard laws, per quanto riguarda le pari opportunità nel mondo del lavoro, e soft laws, per quel che concerne la rappresentanza politica femminile. La parità di genere è infatti un diritto fondamentale, un valore comune dell’Unione europea ed una condizione necessaria per il conseguimento degli obiettivi comunitari di crescita, di occupazione e coesione sociale. Eppure, per quel che riguarda la presenza politica femminile negli organi elettivi, come evidenziato, a fronte di dichiarazioni politiche tanto impegnative, si nota una certa timidezza ad intervenire con norme vincolanti nei limitati settori di competenza. Abbiamo inoltre osservato che ad incidere sulla presenza politica femminile nelle istituzioni rappresentative (che siano parlamenti o consigli e giunte regionali) sia un mix di fattori sia di tipo individuale (volontà e attitudine alla competizione elettorale), sia attinenti al contesto socioeconomico culturale (doppio reddito, divisione del lavoro all’interno della famiglia), sia riguardanti lo specifico processo di selezione e reclutamento nei posti di decisione ed abbiamo dunque constatato come un determinato combinato con norme paritarie (quote) e con la volontà dei partiti politici di perseguire l’obiettivo paritario, possano ripercuotersi fortemente su questa. Le strategie messe in atto per l’equi-rappresentanza di genere sono state molteplici e diversificate, a seconda del contesto culturale, politico e istituzionale. La misura che si è rivelata più efficace dal punto di vista dell’ottenimento di risultati è stata l’adozione di misure antidiscriminatorie sotto forma di quote. Come illustrato, il meccanismo delle quote ha un duplice effetto positivo sulla rappresentanza femminile: da un lato fornisce un incentivo alle potenziali candidate a partecipare al processo di selezione, dall’altro assicura che vi sia una sufficiente presenza femminile fra i candidati. Le quote possono essere adottate in via volontaria da parte dei partiti politici, ed è questo l’esempio dei paesi scandinavi (con eccezione della Finlandia), oppure per via legislativa, sotto forma di vincoli imposti attraverso la legge elettorale. E qui il caso francese e quello italiano mostrano quanto l’adozione di quote per via legislativa possa suscitare accesi dibattiti giuridici e politici. Controverse sono state nel tempo, ad esempio, le interpretazioni che il Conseil constitutionnel in Francia (con la decisione n. 146/1982) e la Corte costituzionale in Italia (con la sentenza n. 422/1995) hanno dato all’uso di azioni positive, ammissibili in campo economico-sociale, nel quadro dell’eguaglianza sostanziale, ma non nel campo politicoelettorale, in quanto accusate di determinare la parità nei risultati e di non rimuovere gli ostacoli di partenza. Interpretazioni che le stesse Corti hanno in seguito ribaltato (in Francia con la decisione n. 407/1999 ed in Italia con la sentenza n. 49/2003) alla luce delle riforme costituzionali che si sono avute nei due paesi (nuovi artt. 3 e 4 cost. in Francia, nuovi artt. 3, 51 e 117 cost. in Italia). L’esempio scandinavo ci insegna anche quanto, oltre all’adozione di un sistema di quote, sia da un lato fondamentale l’orientamento del movimento femminile verso i partiti – una volta insediatesi al loro interno, le donne possono portare avanti le proprie richieste – e quanto sia determinante, dall’altro, un sistema elettorale proporzionale per la rappresentanza politica femminile. Secondo la regola generale, infatti, quest’ultimo è un sistema women-friendly, in quanto consente di eleggere un numero maggiore di donne, soprattutto laddove i collegi siano ampi, vi siano una clausola di sbarramento (possano cioè accedere alla ripartizione dei seggi soltanto le liste che abbiano conseguito una determinata percentuale di voti) e la lista bloccata (gli elettori non abbiano cioè la possibilità di esprimere preferenze ed i seggi siano attribuiti secondo l’ordine di presentazione dei candidati). Le ultime elezioni parlamentari italiane hanno dimostrato proprio come quest’ultima possa essere un’arma a doppio taglio: se infatti, per un verso, la lista bloccata può dare buoni risultati sotto il profilo della rappresentanza paritaria, dall’altro essa limita la libertà di scelta degli elettori ed attribuisce un grande potere ai dirigenti di partito. E se i partiti di sinistra dimostrano di esser più propensi a farsi promotori di pari opportunità, quelli di destra, invece, sono ancora restii a candidare donne. Pochissime risultano essere difatti le previsioni statutarie, almeno per quanto concerne i partiti di destra, che, andando oltre le mere dichiarazioni di principio e la formazione di semplici aggregazioni femminili interne dalle competenze decisamente incerte e comunque non determinanti, fissano regole precise volte ad imporre la parità dei sessi in un contesto così rilevante. Ciò a conferma di quanto avviene tanto in Francia quanto nei paesi scandinavi, dove la differente interpretazione del concetto di uguaglianza conduce i partiti in due direzioni opposte: per i partiti di centro destra le difficoltà che incontrano le donne nella corsa ai seggi parlamentari, essendo riconducibili alla mancanza di educazione, esperienza ed autostima, possono esser superate ad esempio con l’istituzione di scuole per candidate politiche e con programmi mirati, mentre i partiti di centro sinistra, facendone una questione di giustizia partecipativa spostano l’accento sulla discriminazione individuale e strutturale e quindi sul ruolo che hanno nella rimozione di quegli ostacoli formali che impediscono alle donne l’accesso alle cariche politiche e dunque convengono nella validità della clausola di genere. Ripercorrendo la storia elettorale del Parlamento italiano è emerso che la presenza femminile, in questo organo istituzionale, ha raggiunto esiti positivi in due momenti particolari: il primo coincide con le elezioni del 1994, cioè quando il sistema elettorale prevedeva, per l’attribuzione del 25% dei seggi della Camera con metodo proporzionale, l’obbligo di alternanza tra i sessi nelle liste (vincolo non più presente nelle elezioni successive perché considerato inizialmente incostituzionale); il secondo, come ricordato pocanzi, dalle elezioni del 2006 ad oggi, ossia, dall’adozione di un sistema elettorale con liste bloccate. Le differenti esperienze delle Regioni italiane sintetizzano, infine, quelli che possono essere gli effetti che norme di genere, combinate con sistemi elettorali proporzionali, hanno sulla rappresentanza politica; effetti che, come osservato, possono ritenersi complessivamente positivi, in quanto aumentano il numero di donne elette, ed allo stesso tempo diversi, a seconda che si esamini il centro-nord (tendenzialmente più favorevole alla rappresentanza di genere), o il centro sud (ancora molto reticente), o il comportamento elettorale di ogni singola Regione (le misure che si sono dimostrate più efficaci sono quelle adottate da Toscana, Campania e Lombardia, rispettivamente con liste bloccate e alternanza nelle liste in competizione nelle primarie, quota di 2/3 nei gruppi di lista e doppia preferenza di genere e alternanza nelle liste). Abbiamo da ultimo constatato come un ruolo decisivo di promozione della parità di genere possa esser svolto dal Presidente della Regione con la nomina degli assessori. Pare dunque lecito chiedersi: la parità è conseguenza solo di regole giuridiche combinate a sistemi elettorali proporzionali? Ridurre l’equità ad un’operazione matematica, rischia di comportare un processo di emancipazione solitaria di alcune appartenenti ai ceti privilegiati, senza che si spezzi l’autoreferenzialità della politica. Al sistema proporzionale ed alle quote volontarie adottate dai partiti politici, sempre più, a mio avviso, risulta necessario affiancare una cultura paritaria opposta a quella che, fino ai giorni nostri, ha permesso di conservare la separazione ideologica tra sfera privata e sfera pubblica e, quindi, l’allontanamento delle donne da una cittadinanza attiva. Una prima azione da compiere è quella di concentrarsi sulla lotta agli stereotipi di genere sin dai primi anni di età, organizzando formazioni di sensibilizzazione per insegnanti ed alunni ed incoraggiando le giovani donne ed i giovani uomini ad esplorare percorsi educativi non tradizionali, ma volti all’educazione alla cittadinanza democratica. Bisogna inoltre operare per il superamento della tradizionale ripartizione del lavoro domestico, consentendo alle donne di liberare energie che potrebbero essere utilmente indirizzate all’impegno sociale e politico; occorre dunque favorire l’equilibrio tra attività professionale e vita familiare, ricorrendo, ad esempio, ad orari di lavoro più flessibili per donne e uomini ed aumentando i servizi di custodia (asili per l’infanzia e centri di assistenza degli anziani e delle persone disabili), e riducendo, al contempo, i costi di questi. Occorre inoltre anche un’attività di informazione circa la natura del processo decisionale politico. Molte sono difatti le persone che si avvicinano ai ruoli decisionali nella politica senza sapere bene come si assumono le decisioni politiche e quali attitudini richiedono e la maggior parte di queste sono donne che per la prima volta si affacciano sulla scena politica. Per questo motivo risultano essere molto utili, a mio parere, per una migliore conoscenza della realtà della vita politica, i programmi di mentoraggio (mentoring), di tutoraggio e di formazione relativi alla creazione della fiducia e all’arte del comando, così come i contatti con i mezzi di comunicazione. Sempre più, infatti, risulta essere necessario assicurare alle donne pari opportunità di accesso ai media, con l’individuazione di spazi messi a loro disposizione attraverso il finanziamento di apposite campagne a favore di candidati di sesso femminile. Convengo inoltre con quanti auspicano la costituzione di banche dati femminili, contenenti i nominativi di donne qualificate, potenziali candidate alle elezioni, o dirigenti di organi governativi, poiché tali banche di talenti possono costituire una valida fonte per i partiti e le associazioni, sottraendo principalmente ai primi l’alibi dell’indisponibilità di donne qualificate da candidare e, al tempo stesso, consentono al sesso femminile di presentare la propria disponibilità e capacità in ambiti tradizionalmente maschili. In conclusione, il problema della sottorappresentanza politica femminile non solo chiama in causa il ruolo dello Stato, l’efficacia degli strumenti politici (ad esempio il tipo di sistema elettorale) e l’atteggiamento dei partiti, ma pone l’accento anche sulla responsabilità che l’intera società civile ha a riguardo. | it_IT |
dc.language.iso | it | it_IT |
dc.publisher | Università degli studi Roma Tre | it_IT |
dc.subject | Rappresentanza | it_IT |
dc.subject | Genere | it_IT |
dc.subject | Elezioni | it_IT |
dc.subject | Europa | it_IT |
dc.subject | Italia | it_IT |
dc.title | La rappresentenza politica femminile : dal contesto europeo alle regioni italiane | it_IT |
dc.type | Doctoral Thesis | it_IT |
dc.subject.miur | Settori Disciplinari MIUR::Scienze politiche e sociali::SCIENZA POLITICA | it_IT |
dc.subject.miur | Scienze politiche e sociali | - |
dc.subject.isicrui | Categorie ISI-CRUI::Scienze politiche e sociali::Political Science & Public Administration | it_IT |
dc.subject.anagraferoma3 | Scienze politiche e sociali | it_IT |
dc.rights.accessrights | info:eu-repo/semantics/openAccess | - |
dc.description.romatrecurrent | Dipartimento di Scienze Politiche | * |
item.languageiso639-1 | other | - |
item.grantfulltext | restricted | - |
item.fulltext | With Fulltext | - |
Appears in Collections: | Dipartimento di Scienze Politiche T - Tesi di dottorato |
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