Please use this identifier to cite or link to this item: http://hdl.handle.net/2307/4223
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dc.contributor.advisorManiscalco, Maria Luisa-
dc.contributor.authorMasdea, Mario-
dc.date.accessioned2015-04-11T20:51:11Z-
dc.date.available2015-04-11T20:51:11Z-
dc.date.issued2014-06-10-
dc.identifier.urihttp://hdl.handle.net/2307/4223-
dc.description.abstractLe Forze Armate dei Paesi membri dell’Alleanza atlantica annoverano tra i loro ranghi, sebbene sovente con limitazioni di specialità o di categoria, personale femminile la cui integrazione, in un ambito lavorativo storicamente dominato da cultura e dinamiche mono-genere, è oggetto di questo studio. Dopo oltre un decennio dall’apertura all’arruolamento femminile da parte delle ultime Forze Armate che erano ancora caratterizzate dalla presenza esclusivamente maschile, si ritiene che le fasi della resistenza al cambiamento e della conseguente conflittualità tra generi siano oramai superate e si debba rivolgere l’attenzione verso i fattori che possono ostacolare od agevolare un’equilibrata integrazione di genere. Si è inteso dunque analizzare le politiche di genere che, poste in essere dalla NATO come Organizzazione sovranazionale, si riverberano su quelle attuate dalla NATO come alleanza di nazioni sovrane che, seppur indipendenti nella scelta della tipologia di Forze Armate da perseguire, devono adeguarsi ai requirement internazionali. Questa scelta è però condizionata dalle esigenze operative conseguenti dagli impegni assunti dall’Alleanza che, nel corso della propria storia ultra sessantennale, si è trasformata da mero strumento di difesa militare comune ad attore che affronta la globalità delle tematiche inerenti la sicurezza sul proscenio internazionale. Difatti, la fondazione della NATO prese le mosse dalla necessità dei Paesi europei di bilanciare lo strapotere numerico delle Forze Armate sovietiche che incutevano la paura di un’incombente invasione dei territori occidentali. Tale minaccia poteva essere scongiurata solo facendo ricorso ad un patto di mutuo soccorso con l’altra superpotenza all’epoca presente sullo scacchiere geostrategico mondiale – gli Stati Uniti d’America – e creando un’Organizzazione per la difesa comune. Le modalità con cui questo scopo è stato perseguito hanno conosciuto varie fasi di trasformazione, testimoniate dai diversi Concetti Strategici che sono oggetto – nel primo capitolo della ricerca – di un’analisi storico-politica.Il ricorso ad un approccio semantico e filologico nello studio dei prefati documenti, è significativo della multidisciplinarità cui si ispira questa ricerca che spazia dalla geopolitica alla geostrategia, dalla storia alla sociologia, attraverso l’analisi di documenti e la raccolta – di stampo giornalistico – di opinioni e testimonianze. Nel corso dei decenni, le Forze Armate che individuavano nelle armi nucleari e nella costante deterrenza il fattore di equilibrio per evitare che la Terza Guerra Mondiale abbandonasse il suo aggettivo di Fredda e fosse combattuta sui campi di battaglia, si trasformarono in strumenti più flessibili capaci di fornire peso alle risposte politico-diplomatiche per la risoluzione delle crisi. Questa nuova e necessaria flessibilità operativa ha richiesto anche all’interno degli strumenti militari una dimensione che non fosse esclusivamente votata al combattimento ma anche rivolta ad altre aree di conoscenza professionale che prefiguravano l’impiego di nuove professionalità. In tal senso le donne in uniforme hanno cominciato a ritagliarsi uno spazio sempre crescente nell’ambito delle Organizzazioni militari, affrancandosi dai ruoli esclusivamente di supporto in cui erano state relegate per anni anche perché quegli stessi ruoli cominciavano ad assumere un’importanza fino all’epoca sconosciuta. Questo processo è stato naturalmente reso possibile da differenti concause anche non direttamente afferenti al settore di studio come, ad esempio, l’emancipazione sociale raggiunta dalle donne in alcune nazioni che ha tracciato la strada per consentire l’impiego femminile in svariati contesti lavorativi. Con la fine della contrapposizione dei blocchi Est-Ovest a causa dell’implosione del sistema politico economico sovietico, sembrava essere giunto il momento di scrivere l’epitaffio dell’Alleanza che, come una società disciolta per conseguimento dell’oggetto sociale, non doveva più garantire la sicurezza comune che rappresentava l’essenza della propria esistenza. Il corso della Storia ha però voluto che proprio il termine della Guerra Fredda, ed il conseguente passaggio ad un mondo unipolare dominato dall’egemonia statunitense, delineasse nuovi scenari in cui la NATO si sarebbe rivelata non solo utile ma addirittura indispensabile. Infatti, lo smembramento e la trasformazione degli apparati militari –in quella parte di globo fino allora controllata dall’Unione Sovietica – provocò un aumento dell’instabilità e la moltiplicazione delle possibili minacce. Lo scongelamento delle relazioni internazionali con molti dei Paesi prima gravitanti nell’orbita sovietica, e la contemporanea diminuzione del potere politico della Russia rispetto a quello della disciolta Unione, consentì un interventismo fino allora impedito dal precario equilibrio bipolare. La risposta fornita da altre Organizzazioni Internazionali – quale l’intervento delle Nazioni Unite in Somalia – si rivelò inadeguata e la NATO, unica ad avere uno strumento militare integrato, assunse il ruolo di appaltatore monopolista della sicurezza globale attraverso le Crisis Response Operations che cominciarono con l’intervento in Bosnia Herzegovina. Nell’ambito del secondo capitolo si analizzano quei fattori che hanno concorso a delineare uno scenario favorevole all’integrazione femminile nelle Forze Armate. Nel corso degli anni la complessità delle Operazioni condotte dalla NATO – avvalendosi di solito di un mandato delle Nazioni Unite o appellandosi al principio d’ingerenza umanitaria – è andata crescendo in maniera esponenziale fino a raggiungere il suo picco con l’intervento militare in Afghanistan; grazie alle mutate esigenze operative le donne divenivano un fattore indispensabile per la riuscita delle Operazioni ed il loro ruolo era internazionalmente accreditato dall’adozione della Risoluzione del Consiglio di Sicurezza della Nazioni Unite 1325. Per la prima volta, infatti, le donne non erano solo oggetto passivo di protezione ma erano chiamate ad assumere un ruolo attivo nei processi di ricostruzione sociale nelle zone di intervento delle Organizzazioni Internazionali.La Risoluzione auspicava un numero crescente di donne coinvolte nelle fasi di ricostruzione – tra queste erano comprese le donne in uniforme che agivano sotto l’egida della NATO – in grado di imprimere un concreto gender mainstreaming alle stesse. Le relazioni per niente idilliache tra ONU e NATO che erano andate avanti per decenni tra la diffidenza reciproca, si rasserenarono per necessità o per virtù fino a far divenire l’Alleanza uno degli Organismi più attivi nell’implementazione del disposto della Risoluzione 1325. Le donne militari traggono dunque vantaggio da un momento storico particolarmente favorevole alla loro integrazione e che discende da fattori contingenti di natura sociale, politica, militare ed economica stratificatisi nel corso degli anni. Lo status quo dell’integrazione, descritto nel terzo capitolo, evidenzia le variegate realtà delle Forze Armate dell’Alleanza che si diversificano a seconda dell’incidenza dei suddetti fattori, fino a delineare quattro tipologie di leadership con riferimento alle politiche di genere. Nel corso della ricerca, specificatamente nel corso del quarto capitolo, si sono altresì individuati quegli aspetti che rappresentano, di contro, un freno al processo integrativo e che sono stati individuati nelle manchevoli politiche necessarie a garantire, in primo luogo, una sufficiente presenza e, in seguito, un ruolo adeguato delle donne nelle Forze Armate. Le politiche di recruitment e retention applicate dalla maggior parte dei Paesi membri sono sovente tese alla pedissequa applicazione della normativa generica e non all’adattamento della stessa alla particolarità della professione militare. Inoltre, proprio ciò che abbiamo indicato con il termine “militarità” si configura come fattore che limita l’attrattiva della professione a causa della prerogativa di totale abnegazione – in termini di mobilità, sacrifici personali e famigliari – richiesta a chi indossa l’uniforme. Tale specificità è stata suffragata dai dati concernenti la presenza di personale civile femminile nei dicasteri della Difesa nazionali e nella stessa NATO.Nonostante i notevoli progressi compiuti dalle Forze Armate nell’inclusione femminile, l’ancora insufficiente percentuale di donne ed il loro impiego secondo politiche che non ne favoriscono la progressione di carriera, impedisce il formarsi di una leadership femminile che possa apportare nuove e differenti dinamiche all’interno degli apparati militari. Le donne militari si ritrovano invece a subire un inevitabile processo di omologazione, con un conseguente principio di mascolinizzazione di genere che non permette il raggiungimento di un’integrazione che, per essere soddisfacente, presuppone cifre professionali e comportamentali proprie e specifiche. La mera presenza femminile ed il replicare senza innovare una professione che è da sempre ad appannaggio maschile, con la conseguenza di ottenere risultati spesso considerati inferiori, non sottendono ad un’integrazione di successo. Tali considerazioni sono state corroborate anche dai risultati dell’indagine sociologica – condotta su un campione di cinquecento militari uomini e donne e di omologhi colleghi civili – dai quali emerge che l’assenza di riferimenti omogenere e la limitata applicazione dei fattori agevolanti non favoriscono il processo di integrazione delle donne in uniforme. La situazione presenta dunque una duplice connotazione: da un lato il processo di integrazione è oramai al suo stadio finale giacché l’accesso alla professione e l’accettazione verso la componente femminile hanno raggiunto valori soddisfacenti, dall’altro vi è la necessità di completare il processo attraverso azioni che si sviluppino lungo quattro direttrici. Impedire la mascolinizzazione di genere, garantire pari dignità d’impiego, costruire una cultura della professione, adottare politiche agevolanti, sono i pilastri per raggiungere un’integrazione piena e completa. Il lungo processo storico che ha portato all’attuale situazione – che rappresenta un’eccezionale congiuntura di fattori favorevoli – potrebbe nei prossimi anni essere sprecato qualora le autorità politiche e militari non dovessero compiere l’ultimo e decisivo passo verso la definizione di un ruolo delle donne in uniforme che sia consono alle professionalità espresse ed ai sacrifici compiuti.it_IT
dc.language.isoitit_IT
dc.publisherUniversità degli studi Roma Treit_IT
dc.subjectgenereit_IT
dc.subjectdonneit_IT
dc.subjectmilitariit_IT
dc.subjectNATOit_IT
dc.titleLe donne in uniforme nella NATO tra integrazione di successo e mascolinizzazione di genereit_IT
dc.typeDoctoral Thesisit_IT
dc.subject.miurSettori Disciplinari MIUR::Scienze politiche e sociali::SOCIOLOGIA GENERALEit_IT
dc.subject.miurScienze politiche e sociali-
dc.subject.isicruiCategorie ISI-CRUI::Scienze politiche e sociali::Sociology & Anthropologyit_IT
dc.subject.anagraferoma3Scienze politiche e socialiit_IT
dc.rights.accessrightsinfo:eu-repo/semantics/openAccess-
dc.description.romatrecurrentDipartimento di Scienze Politiche*
item.fulltextWith Fulltext-
item.grantfulltextrestricted-
item.languageiso639-1other-
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