Please use this identifier to cite or link to this item: http://hdl.handle.net/2307/40859
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dc.contributor.advisorSPERANDIO, MARCO URBANO-
dc.contributor.authorTIBERI, RICCARDO-
dc.date.accessioned2022-08-04T13:55:10Z-
dc.date.available2022-08-04T13:55:10Z-
dc.date.issued2020-04-24-
dc.identifier.urihttp://hdl.handle.net/2307/40859-
dc.description.abstractFlavius Petrus Sabbatius Iustinianus, asceso al trono di Bisanzio nel 527, regnò fino al 565, anno della sua morte. Uomo di sconfinate ambizioni, visionario, ebbe l’ardire di programmare la restaurazione dell’Impero universale mentre a Ravenna sedeva un re ostrogoto. Il sogno di una Renovatio Imperii, purtroppo svanito col volgere di un sonno, si fondava su tre pilastri: la riconquista delle terre occidentali, l’unificazione religiosa sotto l’egida della Chiesa, l’uniforme applicazione di un ordinamento giuridico compiuto. Così, mentre l’Imperatore combatteva l’eresia e le sue armate, guidate dal generalissimo Belisario, si facevano strada prima in Africa e poi in Italia, a Bisanzio prendeva forma il progetto passato agli annali col nome di Corpus Iuris Civilis. Frutto di un’irrealizzabile aspirazione del legislatore alla completezza dell’ordinamento giuridico, la compilazione rappresenta l’estuario degli impetuosi flussi del diritto romano, ed è ancora oggi croce e delizia di ogni studioso. Il grande merito di questo lavoro sta infatti nell’averci consegnato un inesauribile archivio di vivae voces, un concentrato di sapienza giuridica che ha forgiato numerose generazioni di giuristi, lasciando un segno indelebile nella storia d’Occidente. Tuttavia, presentandoci una realtà “appiattita”, a volte neanche fedele allo spirito classico del diritto romano, ha impedito a quelle voci di pervenire, autentiche, fino a noi. Con la compilazione giustinianea viene infatti cristallizzata una realtà plurisecolare, mutevole e vitale, spesso anche riadattata all’epoca postclassica: un mondo lontano anni luce da quello in cui gli istituti si erano sviluppati. Alcuni dei malintesi generati da uno studio “orizzontale” del Corpus si sono trascinati per secoli; altri miti rimangono ancora in attesa di essere sfatati. La longi temporis praescriptio non sfugge a queste considerazioni, anzi ne è esempio perfetto: considerata per secoli e secoli un surrogato provinciale dell’usucapio da una dottrina che l’aveva studiata sulle pagine del Codex, quale componente del longo tempore capere giustinianeo. La fragilità di quei dogmi, dimenticata col passare del tempo, affiorava nuovamente, una volta appurata la matrice provinciale della praescriptio e l’origine nell’attica παραγραφὴ. Grandi passi in avanti sono stati mossi da allora, battendo il percorso che unisce diritto romano e diritto greco; eppure, le vecchie tendenze seguitano a condizionare il lavoro degli studiosi. Un’inadeguata considerazione della “preistoria romana” della longi temporis praescriptio porta con sé, infatti, alcune conseguenze inaccettabili: si continua, in qualche modo, a sovrapporla all’usucapio. Eppure, un approccio scevro da dogmatismi induce a tracciare una netta cesura fra i due istituti, i cui corsi storici si sovrappongono distintamente solo con le riforme bizantine. Si badi, non c’è dubbio che condividano una qualche affinità in quanto fondati entrambi sulla continuazione di una possessio, ragion per cui le fonti tardoclassiche li trattano spesso congiuntamente: questo non significa, tuttavia, che abbiano requisiti uniformi, medesimi effetti, o identità di scopo. Le radici dell’istituto dei Quiriti affondano nei mitici primordi della Città, in quell’arcaico usus la cui disciplina venne fissata dalla XII Tavole. Ai tempi del Principato si presentava però in vesti più raffinate, pazientemente cucite dalla sottile ars giurisprudenziale attraverso i fili della possessio e i ricami ispirati alla tutela Publiciana. In età classica, l’usucapio aveva una ratio precisa: perfezionare un atto traslativo invalido tramite il consolidamento del dominium. L’effetto – sanatoria doveva necessariamente operare in tempi utili, nel periodo annuale o biennale già tipico dell’usus. I casi erano fondamentalmente due, quello dell’acquisto dal non proprietario e quello della mera consegna di cosa mancipi. Ecco dunque il requisito del titulus, la componente oggettiva che giustificava l’acquisto della proprietà; tuttavia, per un sacrificio così rapido delle ragioni del vecchio proprietario era necessaria anche la presenza della buona fede soggettiva. Il legame fra usucapio e dominium è quindi inscindibile: lo scopo dell’istituto è quello di individuare con certezza chi sia il dominus del bene; dove non esiste dominium non può esservi neanche usucapione. Quando la riforma tributaria di Diocleziano privò la categoria dominicale dei tratti distintivi che l’avevano sempre caratterizzata, l’usucapione dei fondi italici perse di significato e progressivamente scomparve. Quell’effetto sanante – consolidativo del dominium è invece del tutto sconosciuto alla provinciale longi temporis praescriptio. Essa è sì un istituto che si fonda sulla continuazione del possesso, ma nasce come mezzo di sola difesa, in quanto παραγραφὴ, e si fonda su di una possessio particolarmente longeva. Una longa possessio. Uno o due anni da una parte, dieci o venti dall’altra: un abisso. La longi temporis praescriptio non vanta legami genetici con l’usucapione; essa è, invero, nient’altro che un capitolo della storia del longum tempus in diritto romano. Una storia che inizia ben prima del 199 – 200 d.C. Proprio il longum tempus, associato a una possessio, era stato brandito come un’arma dai veteres possessores durante il periodo delle rogazioni agrarie, e in suo nome erano scorsi fiumi di sangue. Ma per realizzare il progetto graccano di redistribuzione dell’ager publicus si dovette scendere a compromessi, sanando entro certo limiti le antiche occupazioni. Questa vetustas suscitava infatti un profondo rispetto nel comune sentire romano, tanto da prevalere nuovamente sulle strette maglie del diritto: Domiziano scampò alla guerra civile, rinunciando alla rivendica dei pubblici subsiciva. Cosa giustificava le reticenze dei vecchi possessori a cedere le terre ce lo dice lo stesso Imperatore, che nella controversia fra Firmium e Falerii si erge a garante delle esigenze di securitas. Anche al di fuori del rigore del ius civile, anche in mancanza dei requisiti dell’usucapione, esiste un diritto a possedere (un “possessorum ius”) che il sovrano intende tutelare. Nell’universo rurale delle campagne fuori di Roma, come insegnano le meditate dottrine agrimensorie, un possesso immemorabile può giustificare la discordanza dei luoghi dalle mappe, una divergenza fra fatto e diritto. Non deve osare, l’uomo, perturbare la quiete di una longa possessio, non possono invocarsi, dopo anni e anni, cartine e documenti: le controversie fra vicini vanno risolte attraverso l’esame de loco. Più tardi, la forza consolidativa del lungo possesso è ancora applicata nei Tribunali, come insegna il prefetto di Miseno, Senecio, nella sua celebre Sententia. Possibile che le esperienze pregresse consentissero ai romani di applicare, discrezionalmente e in via casistica, l’efficacia di una longa possessio a scopi equitativi: difficile, se non impossibile, che lo stato del diritto sia cambiato solo con l’introduzione della longi temporis praescriptio. Perché le stesse esigenze di firmitas e securitas che essa mirava a garantire nell’Egitto severiano erano già da tempo avvertite in Italia, come ci tramandano (con insolita coerenza) le fonti, a partire dall’epoca tardorepubblicana. Si può quindi ipotizzare che, all’esito di questo lungo e travagliato percorso, una longa possessio sia stata recepita in diritto romano ufficiale, acquisendo la dignità di istituto giuridico. Se così fosse, le tracce di un possidendo adquirere diverso dall’usucapione dovrebbero ritrovarsi anche nei frammenti della compilazione: arduo compito, visto che la materia è incisa dalle più importanti riforme giustinianee. Trifonino scrive di “eam possessionem, quae per longum tempus fit” riferendosi ai fondi italici ma il suo responso, che non può avere a che fare con la praescriptio, è ontologicamente incompatibile anche con l’usucapio. Il testo è stato ampiamente rimaneggiato dai giustinianei, che hanno trasformato un passo su dote e longa possessio in un frammento sul periculum usucapionis. Anche Papiniano, padre putativo della praescriptio, conosceva il suo antecedente italico. In D. 44, 3, 11 mette in relazione l’usucapio e un altro istituto, denominato longa possessio, che presenta delle caratteristiche al tempo sconosciute alla longi temporis praescriptio. Ma la recezione in diritto ufficiale della longa possessio risale addirittura all’età adrianea, all’interpretatio di Salvio Giuliano: D. 12, 2, 13, 1 non è altrimenti spiegabile. “Iulianus ait eum, qui iuravit fundum suum esse, post longi temporis praescriptionem etiam utilem actionem habere debere”. Il passo è palesemente interpolato, e pure in maniera grossolana. Giuliano non poteva parlare dell’usucapione, che aveva efficacia acquisitiva e attribuiva il diritto a una rivendica pleno iure; ma l’inserimento giustinianeo della praescriptio (al posto del termine possessio) non ha comunque senso, giacché anch’essa nel VI secolo attribuisce il diritto alla rei vindicatio, non a una semplice actio utilis. La distratta mano di un commissario ci offre quindi conferma dell’esistenza di un istituto fondato sul lungo possesso, nel II secolo già recepito in diritto ufficiale. La longa possessio consolida la situazione di fatto, rendendo incontestabile l’appartenenza dei fondi italici, con tanto di tutela in via d’azione. Per il deflusso delle acque e per tutti gli iura praediorum, entità insuscettibili di una possessio in senso tecnico, la stessa funzione è svolta da una longa quasi possessio. Entrambe si fondano su un lungo periodo di tempo, che opera tenendo le veci del titulus. Questa longa possessio rappresentò per i romani il modello per introdurre in Egitto, nel 199 – 200 d.C., un rimedio alla persistente incertezza del diritto: innestato sulla παραγραφὴ ellenistica, venne allora chiamato praescriptio longae possessionis, ovvero longi temporis praescriptio. Liberato il campo da ogni parallelo con l’usucapione quiritaria, preso come riferimento l’istituto – madre di matrice italica, lo studio della praescriptio diventa molto più fluente. Già dall’interpretazione della δικαία αἰτία, cioè semplice possessio non viziata, concetto che in epoca tardoclassica finisce per ricomprendere anche la bona fides. Stesso dicasi per le espressioni postclassiche come firmitas, securitas, sine inquietudine possidere, in cui riecheggiano le esperienze maturate sul suolo italico e gli insegnamenti dei mensores. Si sposano con rinnovata convinzione le intuizioni che avevano sciolto il dilemma delle due rationes del possesso, del costantiniano “nemo ambigit” in C. 7, 32, 10; si comprende ancor più agevolmente struttura e ratio della più giovane longissimi temporis praescriptio. L’enorme successo del nostro istituto, nato come misura emergenziale (limitata ai confini dell’Egitto) ma divenuto protagonista assoluto del sistema postclassico dei diritti reali12, pose nell’ombra l’antecedente italico, che pure aveva identica ratio: possibile che già nel IV secolo longa possessio fosse ormai mero sinonimo di longi temporis praescriptio. Quest’ultima, divenuta acquisitiva, si era pienamente allineata all’antenato da cui invero gemmava. Successivamente, la stabilizzazione di una praescriptio trentennale di applicazione generale, indipendente dai presupposti (fattuali e giuridici) che avevano caratterizzato le versioni precedenti, è emblema delle istanze semplificative di un diritto volgare. Nata come espressione di una longa possessio, la longi temporis praescriptio si era quindi trasformata in una prescrizione pura, generale ed estintiva: imponeva a tutti gli attori, qualunque fosse il diritto sottostante, di applicarsi entro trent’anni. Il trionfo del corso distruttivo del tempo non arrivò mai alla piena consacrazione: residuava uno sparuto drappello di azioni che ne erano esentate. Se da una parte i successori di Teodosio II cercavano di ridurne le fila, dall’altro preservavano dal rigoroso incedere del tempus gli interessi dello Stato. Questa la situazione che si presentava a Giustiniano, all’alba del VI secolo. La sua è certo una riforma arcaicizzante, guidata dall’ammirazione per i veteres, ma è anche un ingegnosissimo lavoro che riduce a coerenza la tumultuosa storia della longi temporis praescriptio. Un’articolata casistica coordina effetti estintivi e acquisitivi del decorso del tempo, nuovamente piegato al rigore del diritto: viene ripresa la classica praescriptio fondata sul possesso prolungato, e del tutto riesumata l’usucapio. Un istituto è dedicato ai mobili, l’altro agli immobili; le ulteriori innovazioni giustinianee sono il preludio alla loro fusione, in C. 7, 31, 1. Nel diritto della compilazione, quando necessario, i frammenti di ere passate sono ritoccati in nome della uniformità del sistema; cadono, risucchiati in questo vortice, anche i passi sulla vecchia longa possessio, ormai divenuta solo uno dei nomi dell’usucapione bizantina. La prescrizione giustinianea, dedicata ai beni immobili siti in ogni angolo dell’Impero, ripropone la struttura dell’usucapione classica, essendo anzitutto una prescrizione acquisitiva. L’antichissima storia del nostro istituto, che prende piede nel mondo greco ma ancor più si specchia in un drammatico passato romano, forse ci consente di rispondere al più grande interrogativo rimasto ancora irrisolto. “Hoc enim et veteres leges, si quis eas recte inspexerit, sanciebant”. Così diceva Giustiniano, nel sancire l’efficacia acquisitiva della longi temporis praescriptio in C. 7, 39, 8, pr. Difficile che stesse richiamando le dispute sorte nelle scuole orientali, o le trasformazioni cui la praescriptio era andata incontro nel periodo postclassico: il concetto di vetus non può essere riferito ad un’epoca tanto vicina. Né è possibile risolvere l’enigma evocando (ancora!) prematuri accostamenti all’usucapione. Ma, a ben vedere, è la stessa espressione dell’Imperatore a offrirci preziose indicazioni: a quelle antiche leggi sembra infatti mancare la nettezza di contorni, che è invece caratteristica della sua riforma. Per comprenderne la portata dobbiamo esaminarle attentamente, dalla giusta prospettiva: recte inspicere. È possibile che, in epoche risalenti, al lungo possesso fosse stata attribuita efficacia acquisitiva attraverso una decisione di carattere speciale, che non assurgeva al rango di principio generale. Possiamo allora immaginare che Giustiniano stesse volgendo gli occhi al II secolo, in età adrianea, quando Salvio Giuliano (D. 12, 2, 13, 1) per la prima volta aveva riconosciuto al titolare di una longa possessio la facoltà di agire in giudizio. Si era così completato il processo di recepimento dell’istituto in diritto romano ufficiale e, al contempo, si era perfezionato il modello di cui la successiva generazione di giuristi si sarebbe servita per elaborare la longi temporis praescriptio.en_US
dc.language.isoiten_US
dc.publisherUniversità degli studi Roma Treen_US
dc.title“HOC ENIM ET VETERES LEGES”: ‘LONGA POSSESSIO E LONGI TEMPORIS PRAESCRIPTIO IN DIRITTO ROMANOen_US
dc.typeDoctoral Thesisen_US
dc.subject.miurSettori Disciplinari MIUR::Scienze giuridiche::DIRITTO ROMANO E DIRITTI DELL'ANTICHITÀen_US
dc.subject.isicruiCategorie ISI-CRUI::Scienze giuridicheen_US
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dc.description.romatrecurrentDipartimento di Giurisprudenza*
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T - Tesi di dottorato
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