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Title: Gli effetti processuali del negozio di accertamento
Authors: Ricci, Giulia
Advisor: Carratta, Antonio
Keywords: PROCESSO
EFFETTI
NEGOZIO
Issue Date: 19-Apr-2019
Publisher: Università degli studi Roma Tre
Abstract: «La realtà del diritto è certamente una sola: è questo il limite, del resto implicito, di ogni categoria, che il giurista non può e non deve dimenticare»: da questa premessa si dipana lo studio sugli effetti processuali del negozio di accertamento. Accostandosi al negozio di accertamento si percepisce sin dalle prime battute che la disputa cui ha dato luogo è costantemente caratterizzata, sin dalla configurazione in via autonoma dell’istituto nell’ordinamento germanico, dalla contrapposizione tra «negozio e processo» – continuando a citare Nicoletti – o, più specificamente, tra accertamento negoziale e accertamento giurisdizionale. A fronte di questa dicotomia, l’interpretazione prevalente ha negato alla radice l’ammissibilità dell’accertamento posto in essere tra privati, per via dell’incompatibilità dell’attività accertativa con l’efficacia dispositiva propria del negozio giuridico. Eppure, l’assenza di un’espressa previsione, da parte del legislatore, del potere dei privati di spendere l’autonomia negoziale al fine di accertare un rapporto giuridico incerto non è, di per sé, un ostacolo all’ammissibilità del negozio di accertamento: basti pensare al classico dibattito sulla legittimità dell’azione di mero accertamento, di cui oggi non si dubita nonostante l’assenza di un espresso fondamento normativo, per comprendere che il problema dell’ammissibilità del negozio di accertamento non deriva, tanto, dalla riconducibilità o meno del potere di accertare entro l’ambito dell’autonomia negoziale dei privati, quanto, piuttosto, dall’efficacia processuale che dovrebbe riconoscersi all’istituto de quo in caso di risposta affermativa. Ove si tenga a mente che la legge consente che i privati, tramite lo strumento negoziale, diano luogo alla risoluzione di controversie giuridiche su diritti disponibili ex art. 1965 c.c., in modo da fissare l’esistenza e/o la consistenza del rapporto giuridico o di alcuni suoi effetti, dovrebbe ritenersi parimenti meritevole di tutela ex art. 1322, comma 2, c.c. il negozio che raggiunga il medesimo risultato a prescindere dallo strumento dell’aliquid datum et aliquid retentum. Che queste manifestazioni negoziali implichino una disposizione del diritto sostanziale non è revocabile in dubbio, ove se ne accetti la descrizione in termini di «disposizione finalizzata all’accertamento», ossia espressa dalla fissazione della norma concretamente applicabile alla situazione giuridica preesistente incerta. Dopo aver valutato le contrapposte posizioni inerenti all’ammissibilità dell’istituto, si presenta, dunque, all’interprete l’ulteriore aspetto problematico di individuare gli effetti processuali del negozio di accertamento, ovvero delineare il rapporto intercorrente tra il negozio ed il giudizio, quando il primo tende al medesimo scopo cui è istituzionalmente preordinato il secondo. In questa direzione, colpisce la lucidità della riflessione di Falzea, che nel descrivere l’attività dell’accertamento giuridico ne ha intuito l’essenza nell’efficacia preclusiva e, sotto tale qualificazione, ha accostato – seppur per motivi diversi – le dichiarazioni private, rappresentate dalla confessione e dalla transazione, al giudicato, combinati secondo una gradazione via via crescente della preclusione prodotta, fino ad individuare il «massimo grado» dell’effetto preclusivo nella cosa giudicata ex art. 2909 c.c. Questi spunti rendono necessario affrontare la questione degli effetti processuali del negozio di accertamento attraverso lo svolgimento di valutazioni distinte: mentre gli effetti processuali delle dichiarazioni non negoziali dei privati, come la confessione e il riconoscimento del debito, sono chiaramente descritti e collocati dal legislatore sul piano dell’accertamento dei fatti, la stessa uniformità non è rilevabile in ordine all’incidenza processuale delle manifestazioni negoziali riconducibili al genus dell’accertamento, come la transazione e l’arbitrato irrituale. A questo riguardo, l’incertezza sugli effetti della transazione si riflette sulla qualificazione giuridica della relativa eccezione; analogamente, le contrapposizioni sulla natura dell’arbitrato irrituale hanno veicolato distinte accezioni dell’exceptio compromissi e, in tempi più recenti, il contrasto sull’applicabilità dell’art. 819 ter c.p.c. In misura non inferiore incide sulla nostra indagine la configurazione della cessazione della materia del contendere che, se da un lato si è imposta nella prassi giurisprudenziale come provvedimento di rito connesso al venir meno della lite (i.e.: dell’interesse ad agire in giudizio), dettato da esigenze di economia processuale, dall’altro, nella stessa ricostruzione dei giudici di legittimità, lascia filtrare l’opportunità di una diversa configurazione dell’incidenza processuale dell’accertamento negoziale, che non sia la mera conclusione in rito del giudizio in cui ne è stata invocata l’efficacia. A fronte di un quadro di diritto positivo ermetico – se non lacunoso –, si impone all’interprete una presa di posizione netta. Se gli effetti processuali del negozio di accertamento vanno riferiti all’ambito dell’accertamento fattuale – nel quale, peraltro, appare arduo collocare l’attività negoziale di disposizione dei diritti –, l’istituto de quo va, in un certo senso, scorporato: alla rilevanza processuale delle dichiarazioni sub specie facti, corrisponde l’irrilevanza delle dichiarazioni in jure. Se invece si intende che la funzione per cui il negozio di accertamento è ammesso nell’ordinamento partecipa di alcuni caratteri della funzione giurisdizionale – nella misura in cui pone in essere la fissazione della regolamentazione giuridica del rapporto incerto o controverso – è necessario collocarne gli effetti essenziali proprio nello svolgimento del processo, poiché è nella specifica eventualità della sovrapposizione della sentenza al negozio di accertamento, aventi ad oggetto il medesimo rapporto sostanziale, che può valutarsi la meritevolezza della funzione dell’accertamento negoziale e l’attitudine “complanare” rispetto all’accertamento giurisdizionale. Dall’indagine svolta in questo studio è emerso che la consistenza della funzione dell’accertamento negoziale risulta percepibile nell’ordinamento soltanto a condizione di riconoscerne un effetto processuale in rito e nel merito del giudizio avente ad oggetto l’accertamento della situazione giuridica incerta coinvolta dalla manifestazione negoziale. La produzione dell’effetto regolativo del rapporto giuridico sostanziale, che si conforma in via immediata al comando negoziale, non apporta, infatti, alcuna utilità nella relazione tra le parti e, complessivamente, nell’ordinamento, se non si garantisce in sede processuale tanto l’efficacia preclusiva di ulteriori contestazioni, la quale si traduce nell’impedimento dell’accertamento della loro fondatezza, quanto l’attitudine della norma negoziale a porsi come fonte esclusiva di disciplina del rapporto (anche) in vista dell’accertamento giurisdizionale. Muovendo da tale inquadramento della funzione dell’accertamento negoziale, è indubbia l’utilità pratica dell’istituto per le parti titolari di un rapporto giuridico incerto: attraverso il negozio di accertamento, infatti, queste possono determinare sul piano sostanziale la fissazione di uno stato di certezza del diritto equiparabile al risultato garantito dall’accertamento giurisdizionale. È evidente, però, che a questo approdo si arriva soltanto escludendo l’eventualità che il rapporto venga rimesso in discussione in via unilaterale, situazione che può verificarsi anche e specialmente mediante l’instaurazione del processo, il quale, di regola, comporta la sovrapposizione alla norma negoziale (incerta) del comando risultante dall’accertamento giurisdizionale. L’unica via per ammettere che i privati possano conseguire autonomamente ‒ id est senza ricorrere al mezzo processuale, né alla decisione di un terzo ‒ la certezza del rapporto di cui hanno la disponibilità è, dunque, assegnare al negozio di accertamento l’efficacia processuale descritta nel risvolto negativo e, specialmente, in quello positivo della funzione accertativa, ossia la posizione di una norma concreta che, nell’eventualità in cui sorgano ulteriori contestazioni, è destinata a porsi come criterio di giudizio della situazione sostanziale anche nella sede preposta all’accertamento giurisdizionale. Il quadro delineato impone all’interprete il tentativo di conciliare il negozio di accertamento con la costante negazione, nel nostro ordinamento, dell’idoneità delle dichiarazioni private ad incidere nel merito della decisione del giudice, resistenze radicate nel principio di cui all’art. 113, comma 1, c.p.c. Si pone in evidenza che l’attitudine delle dichiarazioni unilaterali delle parti ‒ di rinuncia o di riconoscimento della domanda ‒ a vincolare il giudice nella decisione di merito è incompatibile con la «supremazia pubblicistica» cui è improntato il codice processuale, espressa, per quanto rileva ai nostri fini, nel brocardo jura novit curia. Così, in forza dell’art. 113, comma 1, c.p.c. si esclude l’autonomia processuale della dichiarazione di riconoscimento della domanda, che dovrebbe rilevare limitatamente ai fatti posti a base del diritto dedotto, alla stregua di una confessione o di un’ammissione, a seconda che sia o meno provvista dei requisiti previsti dalla legge ai fini della sussistenza della prova legale. Oltre che imposta dal principio per cui jura novit curia, la soluzione è coerente alla ratio dell’art. 1988 c.c., che, in via generale, assegna alla ricognizione di debito un’incidenza processuale limitata alla relevatio ab onere probandi in favore della parte avvantaggiata dalla dichiarazione. A tale proposito abbiamo rilevato che la legge, in determinate ipotesi, assegna al riconoscimento della domanda degli effetti che esorbitano dal piano dell’accertamento dei fatti, quando pone la «non contestazione delle somme» a fondamento delle ordinanze aventi efficacia esecutiva ex artt. 186 bis e 423 c.p.c. Il richiamo rende necessaria una breve digressione. In precedenza si è dato conto delle interpretazioni contrastanti sulla natura della «non contestazione» prevista nelle suddette disposizioni. Così, mentre autorevole dottrina ha ritenuto che l’oggetto della non contestazione sia relativo esclusivamente ai fatti materiali addotti a fondamento delle «somme» vantate dall’attore, secondo una diversa impostazione, con cui si concorda, il tenore letterale degli artt. 186 bis e 423 c.p.c. sarebbe inequivocabile nel riferire il comportamento non contestativo al diritto di credito. Tra i sostenitori di questa seconda opzione, la maggior parte assegna alla non contestazione delle somme la natura di un comportamento prettamente processuale, ossia il significato di una scelta di impostazione del sistema difensivo in modo «incompatibile … col disconoscimento dei fatti … o [con] l’ impostazione del sistema difensivo su elementi diversi da quel disconoscimento». Per Altri, invece, la non contestazione è la manifestazione inequivocabile di un riconoscimento implicito della domanda, avente ad oggetto l’affermazione della verità dei fatti e l’adesione al diritto applicabile prospettati dall’attore, al quale il legislatore avrebbe inteso assegnare autonomo rilievo processuale. Proseguendo nella traccia da cui siamo partiti, sembra che, adottando quest’ultima prospettiva, potrebbe individuarsi negli artt. 186 bis e 423 c.p.c. la previsione di una dichiarazione unilaterale della parte che incide sull’accertamento giurisdizionale non solo sul piano fattuale mediante la relevatio ab onere probandi, bensì in relazione alla decisione in jure. Anche se così fosse, una simile incidenza del riconoscimento implicito della domanda sul processo non scalfisce il principio generale di cui all’art. 113, comma 1, c.p.c., ma, eventualmente, soltanto quello previsto nell’art. 1988 c.c. Basti tenere presente il regime giuridico assegnato all’ordinanza de qua, con particolare riferimento al carattere modificabile e revocabile ‒ su istanza di parte e, in ogni caso, ad opera della sentenza conclusiva del (medesimo) giudizio di accertamento a cognizione piena ‒ per concludere che lo strumento in questione risponde, nella logica processuale, ad una funzione meramente anticipatoria. In altri termini, si tratta di un’ipotesi in cui il legislatore ha valorizzato il riconoscimento implicito della domanda per incidere sulla modalità processuale dell’accertamento, ma del tutto ininfluente sul contenuto dell’accertamento giurisdizionale risultante dagli artt. 113, comma 1, c.p.c. e 2909 c.c. La conclusione è coerente alla configurazione suesposta dei caratteri essenziali della funzione accertativa: se si tiene presente che il risvolto positivo essenziale dell’accertamento negoziale è rappresentato dall’attitudine dell’atto a sostituirsi alla norma astrattamente applicabile al rapporto incerto e porsi come unica fonte dei relativi effetti, è chiaro che a quella funzione sono estranee le dichiarazioni unilaterali di riconoscimento e rinuncia della domanda. Di regola, tali dichiarazioni sono prive anche del risvolto negativo della funzione accertativa, id est l’effetto preclusivo delle contestazioni, tanto è vero che sia le dichiarazioni di riconoscimento ex art. 1988 c.c., che le manifestazioni di cui agli artt. 115 e 232 c.p.c. non impediscono ulteriori accertamenti della situazione sostanziale, bensì li semplificano a livello probatorio. In via eccezionale, invece, la legge assegna al riconoscimento, seppure implicito nel comportamento non contestativo, un effetto che potremmo accostare a quello dell’accertamento negoziale nel suo risvolto negativo. Le disposizioni di cui agli artt. 186 bis e 423 c.p.c. sono, tuttavia, il frutto di una valutazione di politica legislativa che, al fine di anticipare la formazione del titolo esecutivo, considera il comportamento non contestativo in modo da farne derivare ‒ provvisoriamente ‒ la superfluità dell’accertamento giurisdizionale del diritto, ma non un compiuto effetto preclusivo di esso. È evidente, peraltro, che si tratta di una scelta discrezionale del legislatore, frutto di un bilanciamento di interessi e non imposta dalla natura dell’attività spiegata dalla parte con il riconoscimento della domanda. Al contrario, se è nella facoltà del legislatore assegnare al riconoscimento della domanda un effetto anticipatorio, non sarebbe ammissibile la previsione di una sua incidenza sul contenuto in jure dell’accertamento giurisdizionale, stante la carenza ‒ nella dichiarazione unilaterale ‒ del carattere positivo essenziale della funzione accertativa. In altri termini il riconoscimento della domanda ‒ ma lo stesso vale per rinuncia ‒ attua una forma di disposizione del diritto originato dal rapporto controverso alla quale non si accompagna l’individuazione della regola concretamente applicabile a quel rapporto. Sul piano sostanziale, il rapporto non risulta modificato in quanto manca l’individuazione della regola alla quale riferire l’effetto conformativo proprio del negozio di accertamento. Poiché sono estranee alla funzione accertativa, le dichiarazioni unilaterali sono ontologicamente inidonee ad influire sul potere/dovere del giudice di individuare, tra le norme astratte preesistenti, quella concretamente applicabile alla fattispecie dedotta in giudizio ex art. 113, comma 1, c.p.c. Con il negozio di accertamento, invece, la disposizione del diritto sostanziale è la diretta conseguenza della funzione dell’accertamento, specialmente considerata nel suo risvolto positivo, ovvero la conformazione della situazione sostanziale alla regola individuata dalle parti nell’esercizio dell’autonomia negoziale. Appare chiaro, a questo punto, che non c’è motivo di mantenere, avverso l’incidenza del negozio di accertamento nel merito del processo, la costante opposizione relativa alle dichiarazioni unilaterali, in quanto la via per ammettere gli effetti processuali descritti si rinviene nel significato stesso della funzione dell’accertamento negoziale. Che tale funzione sia meritevole di tutela secondo i canoni dell’ordinamento è desumibile dal combinato disposto degli artt. 1322, comma 2, 1965 c.c. e, ad abundantiam, degli artt. 808 ter e 819 ter c.p.c. Queste norme assegnano ai privati il potere di porre in essere una modalità di autocomposizione della lite o di rimozione dell’incertezza che prescinde dall’intervento dell’autorità giurisdizionale statale tramite una decisione che abbia gli effetti della sentenza. Se l’accertamento negoziale, anche nella sua specie dell’autocomposizione della lite, è ammissibile, l’ordinamento deve garantire che la regola individuata negozialmente dalle parti resti ferma e vincolante, e resista all’eventualità di un accertamento del rapporto avente contenuto diverso da quello negoziale. La prospettiva della sovrapposizione dell’accertamento giurisdizionale a quello negoziale finirebbe, infatti, per negare l’utilità ‒ e dunque la meritevolezza ‒ della funzione accertativa. Ciò significa che l’efficacia del negozio di accertamento deve manifestarsi proprio nel caso in cui una delle parti invochi la tutela giurisdizionale relativamente agli stessi effetti giuridici accertati negozialmente, poiché è specialmente in questa eventualità che riemerge l’incertezza (superata) o la lite (composta). Mediante l’effetto preclusivo delle contestazioni, dunque, il risvolto negativo della funzione accertativa preclude ulteriori accertamenti del rapporto che siano invocati in via unilaterale, ivi compreso l’accertamento avente natura giurisdizionale. Ma tale preclusione è giustificata soltanto in quanto si valorizzi anche il risvolto positivo della funzione accertativa, tramite il quale può affermarsi che il rapporto oggetto dell’accertamento negoziale rappresenta una res finita, ossia una situazione giuridica disciplinata esclusivamente dalla fonte negoziale idonea ad imprimervi lo stato di certezza. Questa conclusione mette in evidenza che l’accertamento di tipo giurisdizionale e quello negoziale non sono fenomeni contrapposti, bensì “complanari”, in quanto tendenti al medesimo fine di chiarire l’esistenza e/o la consistenza del rapporto giuridico mediante la posizione di un comando concreto che, se validamente imposto, non è sostituibile senza la previa eliminazione della fonte da cui ha origine. Ciò si coordina con il principio di cui all’art. 113, comma 1, c.p.c. considerando che il criterio di giudizio che dirige l’accertamento giurisdizionale «secondo diritto … o secondo equità» non fa altro che imporre al giudice l’operazione di individuazione della norma astrattamente applicabile alla fattispecie sostanziale controversa, ogniqualvolta l’incertezza sul diritto applicabile rappresenti un disvalore per l’ordinamento e la fattispecie superi, per questo motivo, il vaglio di meritevolezza ‒ in senso lato ‒ insito nel requisito dell’interesse ad agire. Ma è proprio su tali presupposti che incide la funzione dell’accertamento negoziale, nei suoi risvolti negativo e positivo: venuto meno l’interesse ad agire relativamente al diritto accertato ‒ per l’effetto preclusivo delle contestazioni ‒, permane soltanto l’interesse a che la pronuncia giurisdizionale dichiari che la norma applicabile al rapporto sostanziale è quella individuata con il mezzo negoziale. In altri termini, poiché con il negozio di accertamento viene meno l’incertezza sulla norma applicabile, il criterio di giudizio di cui all’art. 113 c.p.c. è esclusivamente quello conforme al decisum negoziale, espressione della «competenza normativa» riconosciuta dall’ordinamento ai privati.
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Access Rights: info:eu-repo/semantics/openAccess
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T - Tesi di dottorato

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