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http://hdl.handle.net/2307/40799
DC Field | Value | Language |
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dc.contributor.advisor | Rigo, Enrica | - |
dc.contributor.author | Caprioglio, Carlo | - |
dc.date.accessioned | 2022-05-25T13:03:49Z | - |
dc.date.available | 2022-05-25T13:03:49Z | - |
dc.date.issued | 2019-04-28 | - |
dc.identifier.uri | http://hdl.handle.net/2307/40799 | - |
dc.description.abstract | Il presente lavoro si propone di indagare quella specifica dimensione delle politiche di confine e migratorie dell’Unione Europea che ho indicato nei termini di economia politica del confine. Ai fini della trattazione l’espressione assume una duplicità di significati. In primo luogo, l’“economia politica” richiama la dimensione governamentale del confine che, in quanto dispositivo di regolazione della circolazione, contribuisce a una gestione razionale e ordinata degli “elementi” che compongono la società – le cose e le persone, e le loro reciproche relazioni. L’economia politica rimanda così alla “scienza di governo”, all’organizzazione e all’amministrazione della società: ovvero, a quella polizia dei corpi che, nelle riflessioni di Jaques Rancière, determina la distribuzione “diseguale” del potere sociale in una “società di uguali”. In secondo luogo, essa indica la funzione che i confini assolvono nel mediare i rapporti sociali di produzione nel sistema capitalistico contemporaneo. Più specificamente, essa richiama il ruolo che tali dispositivi giocano nel definire la condizione giuridica e sociale dei migranti in quanto lavoratori e l’impatto che ciò determina sulle relazioni lavorative. Nel confine è quindi coinvolta la stessa produzione della forza lavoro “esogena” come merce, laddove il valore della forza lavoro migrante appare strettamente dipendente dalle politiche e dalle normative che presiedono la regolazione del fenomeno migratorio. In quest’ottica, il confine è messo a fuoco nella sua dimensione produttiva: come strumento di governo, non solo della mobilità dei lavoratori migranti, ma delle stesse condizioni di “compravendita” della forza lavoro sul mercato. Il confine assume così i connotati di uno strumento fondamentale per la messa a valore della forza lavoro migrante nel mercato del lavoro europeo. Allo stesso tempo, però, è opportuno rilevare come le due “accezioni” siano inscindibili. In una prospettiva marxiana, infatti, il “capitale” non è semplicemente una “cosa”, un ammontare di denaro e mezzi capace di autovalorizzazione: esso è forma sociale che definisce l’assetto delle relazioni sociali e gli strumenti – primo fra tutti, il diritto – che definiscono tali relazioni ne costituiscono al contempo le condizioni di esistenza e di possibilità. Nel sistema capitalistico viene così meno la possibilità di una netta separazione tra sfera pubblica e privata, tra ambito delle politiche di governo e quello delle relazioni di lavoro. Ai fini della riflessione, ciò implica la necessità di tenere in considerazione il ruolo fondamentale del confine – e del diritto – nell’organizzare gerarchicamente la società senza però, al contempo, tradire la promessa legittimante dell’uguaglianza tra i soggetti. Le relazioni sociali determinate dalla forma sociale capitalistica, infatti, si organizzano intorno a quello che Maurizio Ricciardi definisce come un «ordine paradossale» in cui soggetti liberi e uguali intrattengono rapporti di potere gerarchicamente determinati. Un criterio “paradossale” – quello dell’uguaglianza gerarchica – che nel campo delle relazioni lavorative trova una delle sue più evidenti manifestazioni. Nella prospettiva teorica assunta il “confine” non è compreso semplicemente come linea di demarcazione territoriale, margine della comunità politica – e dei soggetti che le “appartengono” –, nonché limite di validità dell’ordinamento giuridico. Nell’argomentazione proposta il termine indica, infatti, un articolato complesso di strumenti, un dispositivo – secondo la nota definizione di Foucault – di gestione della circolazione, di selezione e articolazione di regimi di mobilità differenziali, di attribuzione di qualifiche e status giuridici particolari, di produzione di soggettività. Un dispositivo di cui il diritto è elemento imprescindibile. In quest’accezione il confine europeo comprende quindi l’insieme delle politiche e delle normative adottate per governare il fenomeno migratorio. Per questo motivo, nonostante l’attenzione rivolta alla sfera dei rapporti di produzione, l’analisi non si limita alle politiche europee in materia di migrazioni c.d. “economiche”, ma prende in esame – nei limiti imposti dalla natura del lavoro – il complessivo apparato normativo che presiede alla gestione del fenomeno migratorio. Nella prospettiva teorica assunta, quindi, le politiche dell’asilo, di contrasto dell’immigrazione cd. “irregolare” e delle migrazioni “economiche” rientrano tutte nel concetto di “confine”: esse regolano, infatti, aspetti diversi – tra loro spesso connessi e “comunicanti” – del medesimo oggetto, afferendo quindi al medesimo “campo governamentale”. Per quanto riguarda la struttura della tesi, l’elaborato si sviluppa in quattro capitoli, di cui i primi due ricognitivi del dibattito teorico internazionale su confini e migrazioni. Il primo prende in esame i principali contributi della letteratura filosofica liberale sul tema, evidenziando le “asimmetrie” costitutive e le contraddizioni con i principi di uguaglianza e di giustizia distributiva che la teoria filosofico-giuridica incontra nel tentativo di giustificare le restrizioni alla libertà di movimento e le politiche di “esclusione” dei migranti delle democrazie occidentali. La riflessione s’intreccia quindi inevitabilmente con il dibattito sviluppatosi intorno al tema della cittadinanza. Facendo leva su una breve ricostruzione della principale letteratura in materia, l’analisi insiste sull’“ambivalenza costitutiva” che caratterizza la cittadinanza come fondamentale strumento giuridico per l’uguaglianza tra gli individui modellato però sul paradigma dell’appartenenza nazionale, necessariamente “escludente”. Dall’analisi della riflessione liberale emerge, infine, una visione naive del confine schiacciata sulla prospettiva della corrente realista degli studi internazionali e della scienza giuridica: che in esso vedono, rispettivamente, la linea di demarcazione della comunità nazionale e il limite di validità dell’ordinamento giuridico. Una concezione che si rivela però inadatta a rendere conto della complessità dei confini contemporanei e delle funzioni che assolvono. Al fine di mettere in luce tale complessità, il secondo capitolo propone una ricostruzione dell’ampio dibattito critico su confini e migrazioni sviluppatosi negli ultimi decenni nella letteratura internazionale e che va sotto l’etichetta dei cd. “studi critici dei confini” (critical boder studies). In esso, il confine assume diverse forme, funzioni, collocazioni spaziali e temporali a seconda della prospettiva presa di volta in volta in considerazione, così come diversa è la comprensione della condizione e del “ruolo” delle persone migranti nelle comunità di destinazione, in particolare nelle democrazie occidentali. L’analisi propone una sistematizzazione dei diversi approcci che si riscontrano nel dibattito critico fondata sulla principale griglia teorica di riferimento. La tesi individua così tre principali prospettive teoriche nel dibattito critico sui temi in esame, le quali fanno ricorso, rispettivamente, a strumenti concettuali ricavati dall’opera di Agamben, Foucault e dalla letteratura marxiana. Un paragrafo a parte è dedicato a quel filone che, negli ultimi anni, ha focalizzato l’analisi critica sul tema del cd. “paradigma umanitario” e sul ruolo che gli attori e i “discorsi” umanitari rivestono nelle politiche migratorie e di confine. Il terzo capitolo ricostruisce l’evoluzione delle competenze e delle politiche europee nei settori della mobilità, della gestione dei confini esterni e della regolazione dei flussi migratori. I primi due paragrafi mettono in luce, da un lato, la natura di segmentata, multiforme e multilivello dello “spazio europeo” definito dal diritto: uno spazio capace quindi di riconfigurarsi e di ridefinire i suoi stessi confini continuamente, in base alla condizione giuridica del soggetto che li attraversa. Dall’altro, l’analisi mette in luce il legame che, sin dai primi passi del processo d’integrazione, connette mobilità e obiettivi di politica economica degli Stati membri, circolazione delle persone e regolazione dei mercati del lavoro. Il terzo e il quarto paragrafo, invece, analizzano il processo di “comunitarizzazione” delle migrazioni, enfatizzando la progressiva securitarizzazione della circolazione e la “criminalizzazione” delle migrazioni “irregolari” che caratterizzano l’interno percorso d’integrazione europea in materia fino alla fase attuale. Un processo, questo, che forma il “contesto” politico e normativo per un approccio fortemente restrittivo delle condizioni di ingresso regolare. I cd. “canali” d’ingresso per motivi di lavoro appaiono oggi come canali “residuali” ed “eccezionali”, rigidamente funzionalizzati agli obiettivi di politica economica e alle esigenze dei mercati del lavoro degli stati membri, che mantengono su di essi un’ampia discrezionalità. Dall’analisi delle politiche europee in materia di migrazioni cd. “economiche” – oggetto del quinto paragrafo – emerge un approccio di tipo “funzionale” che subordina l’accesso al territorio, ai diritti e al welfare alle esigenze nazionali del mercato del lavoro e di bilancio. L’assetto della normativa europea determina una moltiplicazione altamente settoriale dei canali d’ingresso per lavoro. Tale approccio conduce, in primo luogo, a un impatto residuale in termini quantitativi dell’ingresso per motivi di lavoro rispetto ai complessivi flussi migratori verso l’Europa. In secondo luogo, esso si riverbera sull’accesso e sulla mobilità della forza lavoro migrante all’interno del mercato del lavoro europeo (rectius, dei mercati del lavoro europei). L’impostazione delle politiche in materia di migrazioni “economiche” produce, inoltre, un’accentuata “segmentazione” del mercato del lavoro che tende a relegare i migranti nei settori “inferiori” di esso, limitando le possibilità di accesso ai livelli “superiori” caratterizzati da maggiori tutele, retribuzioni e stabilità occupazionale. Infine, la normativa in questione determina un’elevata frammentazione degli status giuridici individuali e una forte “precarizzazione” giuridica e sociale della forza lavoro migrante. L’ultimo paragrafo si concentra sul processo di riconfigurazione dei confini europei avviato dalla cd. “crisi dei rifugiati” del 2015. Un focus specifico è quindi dedicato al cd. “sistema hotspot”, quale principale innovazione del regime confinario europeo e paradigma dell’attuale approccio dell’Unione Europea al fenomeno migratorio e ai meccanismi con cui regolarlo. L’analisi approfondita del funzionamento del sistema hotspot getta luce, infatti, su alcuni aspetti chiave delle trasformazioni dei confini contemporanei e della razionalità di governo a essi sottesa. La riflessione evidenzia la natura degli hotspot di dispositivo di qualificazione giuridica dei soggetti, di attribuzione di status giuridici e posizioni sociali differenziali che contribuisce a definire la composizione della forza lavoro migrante, le condizioni per la sua “valorizzazione” e le pratiche pubbliche e private di gestione delle relative relazioni di produzione. Il capitolo conclusivo sposta definitivamente il fuoco della trattazione “oltre il confine”, per riflettere sulle modalità con cui – alla luce delle politiche prima analizzate – avviene la messa a valore della forza lavoro migrante. Il capitolo si apre con una breve riflessione sulla posizione delle migrazioni nelle economie a capitalismo avanzato e una revisione critica della diffusa interpretazione del “ruolo” della forza lavoro migrante secondo il paradigma classico dell’“esercito di riserva”. I movimenti migratori contemporanei costituiscono un dato strutturale che alimenta e accompagna – in un certo senso, rende possibile – i cicli della produzione, inserendosi nei segmenti “liberati” dalla forza lavoro “nativa” e in quelli “nuovi” creati dall’evoluzione del modo di produzione. Al contempo, però, l’ingresso dei lavoratori migranti è mediata dai confini, che definiscono quindi le condizioni (molteplici) di valorizzazione di quella specifica merce che è la forza lavoro “esogena”. La relazione che intercorre tra migrazione e confini si rivela quindi un aspetto fondamentale nel definire i processi e i costi di riproduzione sociale della forza lavoro, da cui dipendono le condizioni di estrazione e l’entità del plusvalore. La trattazione assume quindi come campo d’indagine le “modalità” con cui avviene la valorizzazione della forza lavoro migrante. L’analisi muove così da una riflessione sul concetto di sfruttamento lavorativo, attraverso una ricostruzione delle due principali prospettive teoriche che si riscontrano sulla letteratura sul tema: la teoria liberale dello sfruttamento e la teoria marxiana. La riflessione mette in luce i limiti insormontabili della teoria liberale nel concepire lo sfruttamento lavorativo, nonché le inevitabili contraddizioni che essa incontra quando cerca di definirlo. Si parla in tal senso di una microeconomia dello sfruttamento: ovvero, di una concezione che “individualizza”, “singolarizza” ed “eccezionalizza” lo sfruttamento lavorativo quale fenomeno che prende forma nelle singole e specifiche relazioni lavorative di mercato. Una prospettiva a ben vedere che – nell’individuare lo sfruttamento solo in ipotesi di violazione radicale della sinallagmaticità dello scambio e delle condizioni di legittimità delle stesse relazioni di produzione (uguaglianza, libertà) – in definitiva altro non fa che salvare la legittimità astratta delle relazioni di mercato. A partire dalla ricostruzione della teoria marxiana, il quarto paragrafo mette in luce come lo sfruttamento non si verifichi nella sfera “pubblica” del mercato ma si collochi in quella “privata” della (ri)produzione e della vita del lavoratore. Lo sfruttamento dei lavoratori non sta, infatti, nella “mera” violazione della legge fondamentale del mercato e dello scambio di equivalenti tra capitalista e lavoratore, come la critica liberale tende sovente a semplificare la teoria marxiana. Bensì, come chiarisce lo stesso Marx, lo sfruttamento si realizza proprio nell’uguaglianza di uno scambio di equivalenti: uno scambio, quindi, in grado di dissimulare i caratteri coercitivi del lavoro libero salariato. Successivamente, la tesi sposta il fuoco sull’armamentario normativo di contrasto dello sfruttamento lavorativo. La breve disamina dei principali strumenti normativi adottati a livello sopranazionale si accompagna a una revisione critica dell’ordine del discorso che ne sostiene l’implementazione. In altri termini, la trattazione analizza criticamente i paradigmi discorsivi e concettuali che definiscono lo sfruttamento lavorativo dei migranti in termini di modern slavery all’interno del dibattito pubblico-istituzionale e nella letteratura del cd. “nuovo abolizionismo”. Lo sguardo volge, quindi, verso gli strumenti di contrasto allo sfruttamento del lavoro predisposti dal diritto dell’Unione Europea e dalla normativa interna italiana. Tale analisi evidenzia come l’approccio adottato a entrambi i livelli non rifletta semplicemente il forte disvalore sociale – e quindi giuridico – delle condotte definite come “sfruttamento”, ma lasci trasparire un significato ulteriore: ovvero, lo sfruttamento come condotta che lede quei diritti e le libertà individuali che esprimono i valori legittimanti della cultura politica e giuridica della modernità occidentale. Lo sfruttamento è così definito come un fenomeno “estraneo” al nostro presente, un prodotto di un tempo altro, che non è quello della libertà e dei diritti. In questo senso il diritto positivo tende a “espellere” il fenomeno dello sfruttamento dal tempo del capitale e dell’economia di mercato, per reintegrarlo come deviazione dalla norma dei rapporti sociale, contingenza fattuale che in quanto tale può essere sanzionata e rimediata. In definitiva, gli strumenti normativi di contrasto allo sfruttamento – nel loro complesso –, piuttosto che rafforzare la tutela dei lavoratori, sembrano consolidare la tradizionale costruzione del rapporto di lavoro di matrice liberale attraverso la formula: il lavoro non libero è sfruttato, il lavoro libero è non sfruttato. Infine, sulla base delle attività di ricerca svolte sul campo durante il corso di dottorato, la trattazione assume le politiche pubbliche adottate in Italia nella gestione del bracciantato migrante quale caso di studio per indagare, al contempo, le modalità di messa a valore della forza lavoro esogena e le “connessioni intime” che legano il governo dei “confini” e quello delle relazioni di produzione. Il “caso” delle “campagne” italiane consente, infatti, non solo di collegare la riflessione teorica al piano della realtà economica e sociale, ma di evidenziare come la sovrapposizione tra politiche di “confine” e del lavoro si rifletta sui meccanismi stessi di valorizzazione della forza lavoro migrante. Nel tirare le fila dell’argomentazione, l’ultimo paragrafo avanza un’ipotesi di ricerca relativamente al ruolo delle migrazioni nei processi di valorizzazione della forza lavoro. Attraverso il riferimento alla teoria marxiana del plusvalore, l’argomentazione vede nei movimenti internazionali di persone – e specificamente nei flussi migratori – non solo un fenomeno che, nell’aumentare l’entità della forza lavoro disponibile incrementa il plusvalore sociale assoluto. Nella prospettiva assunta, infatti, nella funzione delle politiche di controllo delle migrazioni nel determinare – almeno in parte – il valore stesso della forza lavoro emerge la stretta relazione tra “confini” e “plusvalore relativo”. La riconfigurazione dei dispositivi di controllo delle migrazioni ha trasformato, infatti, le politiche migratorie in pratiche di gestione di “flussi migratori misti”, in cui l’attraversamento del confine diviene il momento distintivo tra “migranti irregolari” e “migranti forzati”. Una riconfigurazione che si riflette sulla composizione della forza lavoro esogena a livello europeo con la crescente prevalenza di “lavoratori” titolari di permessi di soggiorno “per protezione”. Ai limiti e alle restrizioni di vario genere che caratterizzano la condizione di tutte le categorie giuridiche cui i migranti possono essere ascritti, si aggiunge così uno specifico apparato di misure normative e burocratiche – ma anche valoriale – di cui sono destinatari i migranti “forzati”. La dimensione “umanitaria” della gestione del lavoro migrante incide sostanzialmente sul “costo” della riproduzione sociale, riducendo il valore stesso della forza lavoro. Se, da un lato, la riproduzione della forza lavoro è in parte sostituita dalla mobilità stessa – mobilità “dall’esterno”, attraverso i confini, e “all’interno”, stimolata da misure di mobilitazione e conservazione in movimento della forza lavoro in base alle esigenze della produzione –, dall’altro, si evidenzia raramente come la forza lavoro migrante sia la componente strutturale e necessaria di quei “rami d’industria” che producono e garantiscono la circolazione delle merci (beni e servizi) fondamentali per la riproduzione sociale della classe lavoratrice nel suo complesso. Ed è proprio questo aspetto che interessa rilevare: la compressione del valore della forza lavoro migrante si riverbera sul valore di quelle merci che sono alla base dell’identificazione del valore della complessiva forza lavoro. Nel capitale come forma sociale le due componenti della forza lavoro – definite dal diritto come “autoctona” ed “esogena” – restano inevitabilmente “legate” tra loro. Così, se l’afflusso di forza lavoro da “fuori” è un dato strutturale del sistema capitalistico, l’articolato apparato che governa la mobilità dei lavoratori integra – quale elemento regolatorio fondamentale – le stesse relazioni di produzione. Migrazioni e “confini” – nelle loro molteplici interazioni – appaiono così definire una “nuova” legge della popolazione del modo di produzione capitalistico globale contemporaneo: oltre l’esercito industriale di riserva. In quest’ottica, le lotte dei lavoratori migranti per i diritti del e sul lavoro ma soprattutto per la libertà di circolazione internazionale si rivela così parte integrante – centrale oggi più che mai – della lotta sul valore del lavoro. | en_US |
dc.language.iso | it | en_US |
dc.publisher | Università degli studi Roma Tre | en_US |
dc.subject | MIGRAZIONI | en_US |
dc.subject | LAVORO | en_US |
dc.subject | UNIONE EUROPEA | en_US |
dc.title | Mobilità, gestione e valorizzazione del lavoro migrante nelle politiche dell'Unione Europea : un'analisi filosofico-giuridica dell'economia politica del confine | en_US |
dc.type | Doctoral Thesis | en_US |
dc.subject.miur | Settori Disciplinari MIUR::Scienze giuridiche::FILOSOFIA DEL DIRITTO | en_US |
dc.subject.isicrui | Categorie ISI-CRUI::Scienze giuridiche | en_US |
dc.subject.anagraferoma3 | Scienze giuridiche | en_US |
dc.rights.accessrights | info:eu-repo/semantics/openAccess | - |
dc.description.romatrecurrent | Dipartimento di Giurisprudenza | * |
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Appears in Collections: | Dipartimento di Giurisprudenza T - Tesi di dottorato |
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