Please use this identifier to cite or link to this item: http://hdl.handle.net/2307/40778
Title: RISOLUZIONE DEL CONTRATTO E RISARCIMENTO DEL DANNO
Authors: Palma, Giulio
Advisor: Zoppini, Andrea
Keywords: Risoluzione
Contratto
Issue Date: 19-Apr-2019
Publisher: Università degli studi Roma Tre
Abstract: La tutela risarcitoria in caso di risoluzione del contratto costituisce un tema centrale nello studio delle tutele contrattuali e, in particolare, dei rimedi sinallagmatici. La tutela che l’ordinamento offre al creditore adempiente, invero, è calibrata in funzione del nesso di interdipendenza funzionale che caratterizza i contratti corrispettivi. La reciprocità tra le prestazioni, di tal guisa che l’una trova causa nell’altra, condiziona la struttura e la funzione degli strumenti di reazione alla mancata attuazione dello scambio. Del resto, là dove l’inadempimento si inscriva nel più ampio contesto di un rapporto contrattuale a prestazione corrispettive, esso deve assumere peculiari caratteristiche perché il creditore possa attivare l’apparato rimediale a lui riservato. La necessità che l’inadempimento debba risultare non scarsamente importante (o, se del caso, integrare i requisiti stabiliti da una clausola risolutiva espressa) evidenzia come risarcimento e risoluzione sottendano due differenti istanze di tutela, essendo l’uno posto a presidio dell’inadempimento in quanto tale e l’altro della programmazione inattuata. La più ampia dimensione che l’art. 1453 c.c. intende tutelare mediante l’azione di risoluzione consente di discorrere, là dove l’inadempimento si presenti nell’àmbito di un rapporto sinallagmatico, di violazione del contratto piuttosto che di inadempimento dell’obbligazione contrattuale. Ne consegue che il danno che si determina in esito alla violazione del contratto è un danno diverso da quello che si produce a seguito dell’inadempimento dell’obbligazione. La violazione della lex contractus, invero, descrive un fenomeno più ampio rispetto al mero mancato conseguimento della prestazione. Da questo angolo di osservazione, si può correttamente distinguere tra danno da inadempimento e danno contrattuale, intendendosi per tale il danno conseguenza della mancata attuazione dello scambio nel più ampio significato di omessa realizzazione dell’operazione economica programmata. Sotto altro profilo, poi, occorre ulteriormente distinguere il danno contrattuale in ragione del rimedio che il creditore concretamente sceglie di attivare. La diversa funzione che l’ordinamento attribuisce all’azione di adempimento e all’azione di risoluzione, invero, reca conseguenze sul piano della direzione dell’obbligazione risarcitoria. La volontà di tener fermo il vincolo oppure di affrancarsene, al fine di ricercare una migliore controparte contrattuale, denota la sussistenza di un diverso interesse in capo al creditore. Quest’ultimo, invero, nel primo caso, dimostra ancora di voler attuare lo scambio, sia pure mediante compensazione delle perdite determinatesi (sostanzialmente) in conseguenza del ritardato conseguimento della prestazione; mentre nel secondo esprime la volontà di rendere definitivo l’inadempimento e quindi di veder reintegrato il proprio patrimonio in misura tale da consentigli di rimuovere gli effetti negativi della risoluzione. La declinazione che in concreto viene ad assumere il diritto soggettivo al risarcimento del danno dipende dalla volontà che il creditore attualizza mediante la scelta che l’art. 1453 c.c. gli pone dianzi. Per descrivere questa diversa qualificazione che il diritto al risarcimento assume, possono essere utilizzate le espressioni «interesse positivo» ed «interesse negativo». Quest’ultime, invero, non si limitano a delineare il contenuto economico del danno, in quanto sono in grado di individuare (anche) la differente situazione giuridica tutelata dai rimedi previsti per la violazione del sinallagma. La tutela risarcitoria, dunque, deve essere ricostruita alla luce della funzione che assolvono i rimedi satisfattori e ripristinatori e degli interessi che mediante l’esercizio degli uni, ovvero, degli altri il creditore deluso intende perseguire. In questa prospettiva, la reazione all’inattuazione dello scambio che si mette in moto a seguito della risoluzione, determina la produzione di effetti peculiari che si rivelano incompatibili con il risarcimento dell’intesse positivo. L’efficacia retroattiva della risoluzione in uno con gli obblighi restitutori che dalla stessa scaturiscono, suggeriscono di ancorare il risarcimento del danno intorno all’interesse negativo. Del resto, consentire al creditore di conseguire mediante il risarcimento del danno quella stessa utilità che avrebbe conseguito attraverso l’adempimento viola, sia pure in una dimensione retrospettiva, il sinallagma. Il danno da risoluzione, quindi, deve essere ricostruito come conseguenza dello scioglimento del contratto. Quest’ultimo, per quanto indotto dall’inadempimento, rimane pur sempre un atto insindacabile del contraente fedele il quale, posto dinanzi all’alternativa di manutenere il contratto e, quindi, di conseguire coattivamente la prestazione oppure di risolverlo, sceglie di liberarsi dal vincolo. La rinuncia al conseguimento della prestazione denota il disinteresse del creditore rispetto alla ricchezza programmata e fa emergere, piuttosto, la volontà di quest’ultimo di essere ristorato delle perdite in cui è incorso a causa della definitiva inattuazione dello scambio. Nella misurazione di tali pregiudizi, però, non si dovrà tener conto delle utilità originarie e, quindi, del valore della prestazione inadempiuta. Essa, al più, potrà costituire la base di calcolo per l’individuazione dei maggiori costi o dei minori ricavi che l’adempiente ha dovuto sopportare a seguito dello scioglimento del vincolo. Si può ritenere, quindi, che il risarcimento del danno da risoluzione possa essere identificato – come suggerisce il disposto dell’art. 1518 c.c. – nella differenza tra il valore della prestazione e il prezzo di mercato nel momento in cui l’inadempimento diviene definitivo, salva la possibilità di fornire dimostrazione del maggior danno. Quest’ultimo, tuttavia, non si identifica nel lucro conseguente alla perdita della prestazione – cui, invero, il creditore ha deciso di rinunciare – ma nel lucro che il risolvente avrebbe potuto conseguire ove avesse diversamente investito le risorse inutilmente immobilizzate nel disciolto contratto. Lo studio dell’azione di risoluzione, dei suoi presupposti e dei suoi effetti, dunque, rende preferibile aderire alla tesi che riconosce al risolvente il ristoro dell’interesse negativo
URI: http://hdl.handle.net/2307/40778
Access Rights: info:eu-repo/semantics/openAccess
Appears in Collections:Dipartimento di Giurisprudenza
T - Tesi di dottorato

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