Please use this identifier to cite or link to this item: http://hdl.handle.net/2307/40647
Title: LA RESPONSABILITA' SANITARIA TRA VECCHI E NUOVI ORIZZONTI
Authors: Villa, Elisabetta
Advisor: Mazzamuto, Salvatore
Keywords: LEGGE BALDUZZI
CRISI ORIENTAMENTO CONSOLIDATO
Issue Date: 21-Jun-2017
Publisher: Università degli studi Roma Tre
Abstract: Il presente lavoro si propone di effettuare una ricostruzione del dibattito che ha animato il tema della responsabilità sanitaria, offrendone non solo una lettura diacronica, puntellata da fondamentali snodi, vuoi pretori, vuoi normativi; ma di abbozzarne altresì una disamina critica. Del resto, svariate sono le ragioni di interesse di un tema quale quello della responsabilità medica oggi. Innanzitutto, da un punto di vista “dogmatico”, esso si presta ad essere il banco di prova di plurime impostazioni, metodologiche oltre che interpretative, legate al diritto delle obbligazioni ed al diritto dei contratti, oltre che della sola responsabilità civile. Si pensi, a titolo meramente esemplificativo, alla distinzione tanto dibattuta tra obbligazioni “di mezzi” e obbligazioni “di risultato”, la quale ha infatti trovato –e non a caso, vien fatto di aggiungere terreno fertile proprio in materia di responsabilità sanitaria. Dal punto di vista “socio-politico”, poi, l’attività medica è teatro o materia di veri e propri conflitti di interesse, che sistemicamente si tramutano in altrettante controversie giudiziarie di tipo risarcitorio. Ed invero, nella materia oggetto di ricerca si è passati da un modello di relazione di tipo paternalistico, in cui l’operatore sanitario viene visto come il detentore assoluto delle conoscenze necessarie per l’espletamento della sua attività, e di conseguenza il paziente è colui il quale si affida completamente a quest’ultimo, ad un modello di relazione in cui regna sovrana la sfiducia del secondo verso il primo. Accade così che, anche in ragione del fatto che le conoscenze specialistiche sono di maggiore diffusione, e la “aspirazione” verso il miglioramento delle proprie condizioni di salute è divenuta “pretesa” alla guarigione, gli eventuali insuccessi dell’attività sanitaria espletata si trasformano quasi automaticamente in controversie risarcitorie, spesso senza fine. Dal che, fatalmente, la vera e propria esplosione del contenzioso e, quale “reazione” inesorabile, il diffondersi del fenomeno della c.d “medicina difensiva”, nella sua versione attiva e passiva. Peraltro, evidenti sono le ripercussioni della medicina difensiva su svariati fronti: in primo luogo, ne esce indebolita la tutela del diritto fondamentale di cui all’art. 32 Cost.; in secondo luogo, viene rallentato il progresso scientifico ed impoverita l’attività di ricerca in campo medico-sanitario; infine, e ciò in particolar modo con riferimento alla medicina difensiva attiva, ne deriva una eccessiva contrazione delle risorse finanziarie destinate al Servizio Sanitario Nazionale. È noto come il fenomeno della medicina difensiva rappresenti il momento patologico di un rapporto che, come si è sopra accennato, ha subito dei forti cambiamenti in punto di equilibri sussistenti tra medico e paziente. Può dirsi cioè che, con l’irrompere del principio personalistico, tali equilibri si sono capovolti e che al centro della relazione terapeutica vi è ormai il paziente, assunto quale parte debole del rapporto ed il cui consenso informato è divenuto condizione imprescindibile di legittimità dell’operato del sanitario. Chiare le conseguenze che il mutamento di quadro così determinatosi ha prodotto: la responsabilità del medico dipendente da una struttura sanitaria è stata qualificata come contrattuale o da contatto sociale; le obbligazioni del professionista medico da obbligazioni di mezzi sono divenute (anche) di risultato; l’onere della prova è stato fortemente alleggerito in favore del paziente, il quale deve provare il solo titolo costitutivo del suo diritto e il danno, dovendo piuttosto esclusivamente allegare l’altrui Inadempimento; lo standard probatorio richiesto per l’accertamento del nesso causale è stato abbassato alla regola del “più che probabile che non”; il dies a quo della prescrizione per far valere il proprio diritto è stato posticipato al momento in cui il pregiudizio possa essere effettivamente percepito oppure possa essere consapevolmente individuato come conseguenza di un determinato comportamento. Tutto questo mostra come la medicina difensiva sia stata una conseguenza quasi scontata di un riassestarsi dell’intero rapporto intorno al paziente, donde l’atteggiamento di forte chiusura del personale medico, più preoccupato di tutelare sé stesso e il proprio patrimonio piuttosto che la salute del paziente medesimo. Ma la patologia del rapporto medico-paziente, rapporto che, è bene ricordarlo, si insinua all’interno di un servizio pubblico svolto a tutela di diritti fondamentali, non poteva non generare ulteriori anomalie. L’eccesso di responsabilità cui il medico oggi soggiace ha avuto ed ha, infatti, gravi ripercussioni anche a carico del bilancio pubblico, sia perché il medico, nel timore di subire rappresaglie risarcitorie, prescrive “troppo”, sia perché i costi e gli oneri del contenzioso sanitario finiscono per gravare su tale bilancio. Ecco che allora, a fianco degli obiettivi di politica del diritto volti a rimediare alla patologia (la medicina difensiva), e a ricostituire una relazione più sana tra il medico e il paziente, emergono altre finalità legate alle esigenze di “buon andamento” in senso economico, ex art. 97, co.2, Cost. Viviamo in un momento storico, infatti, in cui l’equilibrio di bilancio è diventato un rigoroso obiettivo cui lo Stato italiano deve attenersi in coerenza con l’ordinamento dell’Unione Europea, ex art. 97, co.1, Cost., e pertanto è divenuto esso stesso “fine” dell’azione pubblica genericamente intesa; e viviamo in un momento storico, di conseguenza, in cui il dialogo tra giuristi ed economisti si impone come necessario, dialogo che nel mondo nordamericano è divenuto la “regola” già da decenni, e che nel nostro ordinamento, invece, appare quasi come una novità. Un grande promotore dell’analisi economica del diritto, Guido Calabresi, ammetteva già negli anni ‘70, infatti, come la sua opera, intitolata “The Cost of Accidents”, potesse apparire strana al giurista italiano tradizionale, immaginato dall’Autore come “turbato da una concezione del diritto che ne esalti l’aspetto di sistema finalistico inteso al raggiungimento di determinati scopi, incluso quello dell’efficienza economica”. Oggi, invece, sebbene l’analisi economica del diritto non rappresenti l’aspetto principale della formazione del giurista nostrano, non si può non prendere atto della sua rilevanza (quantomeno) quale strumento di comprensione delle scelte legislative del momento e, quindi, del diritto vigente. Alla luce di quanto detto, infatti, si comprende bene la ragione per la quale il nostro legislatore ha di recente mostrato un maggiore interesse verso la materia della responsabilità in ambito sanitario: l’intento è, chiaramente, quello di correggere o arginare le distonie create a valle della deriva contenziosa della prestazione sanitaria e della conseguente medicina difensiva. D’altronde, l’evoluzione della società europea degli ultimi due secoli, caratterizzata da un considerevole aumento del numero degli incidenti, in conseguenza dell’altrettanto considerevole aumento dei rischi legati al progresso tecnologico e industriale, ha trasformato la responsabilità civile in nient’altro che uno strumento di “distribuzione dei rischi”. Sembra comprensibile, pertanto, che il legislatore abbia scelto di intervenire su tale materia con l’obiettivo di perseguire, per l’appunto, un determinato assetto di “giustizia distributiva”. Ad ogni modo, preso atto della delicatezza della tematica, il presente lavoro mira anche a saggiare la praticabilità di ulteriori e diversi percorsi argomentativi e ricostruttivi rispetto a quelli da ultimo abbracciati dal legislatore, provando a coniugare l’approccio pragmaticamente orientato alle conseguenze - oggi prevalente - con l’imprescindibile necessità di tenere fede a principi e valori fondamentali, di rango costituzionale e non. Come verrà meglio approfondito nel corso del lavoro, infatti, al fine di far fronte alle criticità che l’evoluzione dottrinale e giurisprudenziale ha portato nella materia de qua, la scelta del legislatore è stata quella di qualificare espressamente la responsabilità dell’operatore sanitario come extracontrattuale anziché contrattuale. Ciò è avvenuto, in un primo momento, con la emanazione della c.d Legge Balduzzi, la quale, però, in ragione di una nutrita serie di dubbi interpretativi che ha suscitato, non è risultata determinante; in un secondo momento, e cioè nella situazione attuale, con un disegno di legge che, expressis verbis e con minori incertezze, invoca la responsabilità dell’operatore sanitario alla luce dell’art 2043 c.c. Ciò che si vuole dimostrare con la presenta ricerca, però, è che la qualificazione della responsabilità, e il conseguente regime giuridico che ne deriva, non può essere esclusivamente il frutto di una scelta meramente discrezionale di politica del diritto, e ciò anche quando le ragioni sottese alla stessa siano giustificate e comprensibili. Non sembra coerente, infatti, che per quasi due decenni l’esigenza di garantire una maggiore tutela al paziente abbia portato la giurisprudenza maggioritaria a parlare di responsabilità contrattuale “da contatto sociale”, e che oggi, date le storture che questa impostazione ha provocato, il legislatore spazzi via tutto qualificando la responsabilità medesima come “extracontrattuale”; e non sembra coerente, a maggior ragione, parlare di responsabilità, sia pure “extracontrattuale”, quando questa non si presenti come la soluzione più efficiente in termini economici, alla luce di una valutazione “costi-benefici” che il legislatore dovrebbe effettuare a monte. Infatti, da un lato va presa nella debita considerazione la necessità di far fronte al fenomeno della medicina difensiva, il quale, come sopra accennato, presenta diversi risvolti negativi e di varia natura; dall’altro, non si può far finta che la figura del contatto sociale non esista o che comunque non rilevi nel caso di specie, tanto più a fronte della buona prova di sé che nel complesso ha dato. Il legislatore, con la legge Balduzzi e il nuovo disegno di legge, impone una disciplina giuridica che ha il suo proprium nell’apprestare tutela (di natura riparatoria) ad una situazione di “incontro-scontro” tra danneggiante e danneggiato. Il presupposto del regime giuridico di cui all’art. 2043 c.c., infatti, è la previa assenza di alcuna relazione tra quest’ultimi e il successivo rapporto, “post-fatto illecito”, di natura esclusivamente risarcitoria. Invece, il rapporto medico-paziente, instaurato anche all’interno di una struttura sanitaria, e quindi in assenza di un vero e proprio contratto, è pur sempre, per l’appunto, un “rapporto” vero e proprio, caratterizzato da una serie di diritti e doveri reciproci, un rapporto che viene prima, e non dopo, il momento patologico del danno. In particolare, il rapporto tra il medico e il paziente ha, innanzitutto, un carattere fisiologico; solo in un secondo momento, eventualmente, si converte in un rapporto di natura riparatoria al fine di compensare il paziente-danneggiato del pregiudizio subito. Di conseguenza, imporre il regime giuridico della responsabilità extracontrattuale alla responsabilità medica significa, in un certo senso, “forzare la realtà” o, peggio ancora, dato che questa “è” o “non è” e non può quindi essere “deformata” oltre misura a piacimento del legislatore, significa creare una divergenza radicale tra “fatto” e “norma”, come se si trattasse di due mondi distinti e separati. Allora, piuttosto che invocare acriticamente l’art. 2043 c.c., come se davvero si potesse considerare il medico un semplice “passante”, occorrerebbe trovare una soluzione forse più rigorosa dal punto di vista normativo. E questa potrebbe trovare fondamento nell’art. 1228 c.c, per la ragione fondamentale che tale articolo recita che “Salva diversa volontà delle parti, il debitore che nell’adempimento dell’obbligazione si vale dell’opera di terzi, risponde anche dei fatti dolosi o colposi di costoro”. Come autorevole dottrina ha affermato, infatti, se il medico ospedaliero può considerarsi un ausiliario della struttura sanitaria presso cui dipende, la conclusione più corretta sarebbe quella della “negazione della responsabilità dell’ausiliario”, in quanto l’operatore sanitario esegue la prestazione come se fosse il debitore, ossia come se rappresentasse la struttura sanitaria. Tale soluzione si presenta non solo come la più opportuna ma anche come la più coerente: infatti, da un lato è l’unica che consentirebbe davvero di neutralizzare il fenomeno della medicina difensiva; dall’altro, è l’unica che si presenta aderente al dato normativo (data la formulazione dell’art. 1228 c.c), e che, al tempo stesso, non deforma la realtà dei rapporti, risultato quest’ultimo che invece finisce per realizzare la soluzione di richiamare il regime della responsabilità extracontrattuale. Peraltro, facendo propri i concetti espressi da Guido Calabresi a proposito delle funzioni della responsabilità civile e dei metodi per realizzarle, ed importando i medesimi concetti dalla materia dei “sinistri” a quella della responsabilità sanitaria, si potrebbe sostenere come la funzione della responsabilità medica sia di certo quella di garantire al paziente danneggiato la riparazione del pregiudizio subito (la riduzione dei “costi secondari dei sinistri”), ma in uno con la riduzione dei “costi primari”, ossia con la riduzione del numero e della gravità degli “incidenti”. L’attività medica rientra, infatti, nel novero delle “attività pericolose” e, in particolare, di quelle “pericolose” ma, allo stesso tempo, socialmente “utili” o “necessarie”. Per tale ragione, il mezzo di cui dispone la società per ridurre il più possibile il rischio insito in tale attività non può essere quello di scoraggiarne del tutto l’esercizio ma, piuttosto, quello di orientarlo, al massimo, verso metodi più sicuri. Stando così le cose, occorrerebbe saggiare la ragionevolezza della soluzione sopra prospettata: addossare la responsabilità sanitaria in capo alla struttura e negarla nei confronti del medico dipendente significherebbe assolvere la funzione della “riduzione dei costi secondari”, e quindi garantire al paziente, comunque, un risarcimento del danno; allo stesso tempo, però, mediante l’utilizzo di un criterio di distribuzione dei danni che gli economisti chiamano della “tasca profonda”, ossia mediante il trasferimento dei costi a carico di categorie di soggetti che meno ne risentirebbero (nel nostro caso, le strutture sanitarie in luogo dei singoli medici dipendenti), si consentirebbe alla responsabilità di assolvere meglio anche la funzione della “riduzione primaria dei costi”. Sono le strutture sanitarie, infatti, non solo i soggetti più idonei a sopportare il carico economico degli oneri risarcitori, ma anche quelli maggiormente in grado di apprestare un sistema di prevenzione dei “costi primari”, investendo in strutture, macchinari o nuove tecniche di cura al fine di ridurre, a monte, il numero e la gravità degli esiti infausti; e, com’è evidente, addossare la responsabilità in capo a quest’ultime servirebbe da “stimolo” a tali forme di investimento.
URI: http://hdl.handle.net/2307/40647
Access Rights: info:eu-repo/semantics/openAccess
Appears in Collections:Dipartimento di Giurisprudenza
T - Tesi di dottorato

Files in This Item:
File Description SizeFormat
TESI-Elisabetta Villa.pdf921.24 kBAdobe PDFView/Open
Show full item record Recommend this item

Page view(s)

71
checked on May 3, 2024

Download(s)

696
checked on May 3, 2024

Google ScholarTM

Check


Items in DSpace are protected by copyright, with all rights reserved, unless otherwise indicated.