Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: http://hdl.handle.net/2307/40509
Titolo: LA SICUREZZA ALIMENTARE DEL CONSUMATORE E IL SUO DIRITTO ALL'INFORMAZIONE
Autori: Romano, Daria
Relatore: Mazzamuto, Salvatore
Parole chiave: SICUREZZA ALIMENTARE
INFORMAZIONE
ETICHETTATURA
Data di pubblicazione: 21-giu-2017
Editore: Università degli studi Roma Tre
Abstract: Negli ultimi anni si è assistito ad un innalzamento della soglia di attenzione della pubblica opinione intorno ai temi della sicurezza alimentare a causa di vicende - riguardanti ad esempio i polli alla diossina, la salmonellosi, la carne agli ormoni - che hanno notevolmente inciso sul modo di percepire il rischio alimentare da parte dei consumatori. Il presente lavoro si inserisce nel contesto appena delineato e affronta il problema della sicurezza alimentare e del connesso diritto all’informazione del consumatore di alimenti. A tal fine si è ritenuto opportuno suddividere la trattazione in tre sezioni: nella prima si delinea una panoramica complessiva delle fonti della legislazione alimentare e dei principi generali concernenti i profili di sicurezza e salubrità del cibo; si affronta successivamente il tema del diritto all’informazione del consumatore, garantito dalla normativa in materia di etichettatura e tracciabilità degli alimenti con la quale il legislatore europeo ha imposto stringenti obblighi di informazione al produttore e agli altri operatori del settore; vengono infine analizzati in chiave critica gli strumenti di tutela attualmente esperibili dal consumatore nelle ipotesi di violazione delle norme sulla sicurezza di quello che viene definito “un mercato di alimenti sani e sicuri”, nonché di quelle poste a sostegno della trasparenza delle operazioni commerciali. Il primo capitolo si apre con un breve excursus sui sistemi di frode alimentare che, già praticati nel mondo antico, colpiscono la filiera agroalimentare danneggiando l’ultimo anello della catena: il consumatore. Si sottolinea come la necessità di un intervento delle istituzioni a tutela dei consumatori, orientato ad un più pregnante controllo del commercio dei prodotti alimentari, abbia costituito - nel mondo antico così come in quello odierno - il fulcro essenziale delle misure volte alla prevenzione e alla repressione di tale genere di frodi. Viene così chiarito il concetto di sicurezza alimentare nella sua duplice accezione di food security e food safety, due componenti collegate, inevitabilmente, ad uno stesso diritto, quello ad un’alimentazione “adeguata”: con l’espressione food security ci si riferisce alla necessità di soddisfare il fabbisogno alimentare della popolazione e garantire, dunque, la certezza degli approvvigionamenti alimentari in una società, quella odierna, in cui purtroppo non si riesce ancora ad assicurare del tutto l’accesso al cibo e la distribuzione dello stesso, a causa delle evidenti disparità esistenti fra nord e sud del mondo. Concepita in tale ottica, la food security ha come fine primario quello della salvaguardia della dignità individuale e dello sviluppo armonico della persona, un fine che può dirsi però pienamente realizzato solo una volta espletata la fase della safety, la quale è a sua volta governata dall’esigenza di garantire non soltanto la qualità igienica e la sicurezza dei prodotti alimentari nel quadro della tutela della salute, ma anche e soprattutto la conformità dell’alimento stesso a quanto descritto. In quest’ottica viene evidenziato come il cibo, oltre che sufficiente da un punto di vista quantitativo, debba necessariamente essere adeguato da un punto di vista qualitativo, avuto riguardo alle condizioni fisiche, ma anche culturali e religiose di ciascun individuo. Un alimento non sicuro, infatti, oltre che ledere il diritto alla salute dell’uomo, può violarne la sfera etica: basti pensare all’articolata normativa ebraica relativa al consumo di alcuni alimenti, quali il pane, il vino e i formaggi, per rendersi conto di quanto risulti fondamentale, per il consumatore ebreo, ricevere la garanzia e la sicurezza che nella preparazione di questi alimenti non vengano utilizzati ingredienti proibiti dalla loro religione. I principi generali concernenti i profili di sicurezza e salubrità del cibo sono stati introdotti dal regolamento 28-01-2002 n. 178, al quale si deve: a) l’istituzione dell'Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA), un’agenzia indipendente con compiti di consulenza scientifica, nonché di condivisione e diffusione delle informazioni necessarie a prevenire tutti i rischi collegati alla catena alimentare (artt. 22-49); b) l’individuazione di criteri di valutazione del rischio (art. 6), quest’ultimo inteso come «funzione della probabilità e della gravità di un effetto nocivo per la salute, conseguente alla presenza di un pericolo»; c) l’analisi del «principio di precauzione» (art. 7); d) l’elaborazione di disposizioni generali per imporre la tracciabilità degli alimenti e dei mangimi (art. 18); e) l’istituzione, sotto forma di rete, del sistema di allarme rapido per alimenti e mangimi (RASFF), finalizzato alla notificazione di un rischio diretto o indiretto per la salute umana derivante da alimenti o mangimi (art. 50). Particolare attenzione è stata ancora dedicata, nella stesura del presente lavoro, alla complessa disciplina dell’etichettatura dei prodotti alimentari prevista dal regolamento UE n. 1169 del 2011, la cui ratio è quella di garantire ai consumatori un’adeguata informazione che tenga conto dei fattori sanitari, economici, ambientali, sociali ed etici in grado di influenzare le proprie scelte. Viene dunque posta in luce la peculiarità del sistema di sicurezza alimentare, costituito dall’interazione sinergica di norme di stampo pubblicistico, penalistico e civilistico da cui sono emersi importanti princìpi generali quali: a) il principio di sicurezza, che consente l’immissione nel mercato dei soli alimenti sani e sicuri per il consumo umano e animale; b) il principio di rintracciabilità, che consente di rintracciare gli operatori della catena alimentare nelle diverse fasi a partire dalla produzione fino alla distribuzione degli alimenti; c) il principio di responsabilità, per il quale tutte le attività legate alla produzione e al consumo di alimenti sono sottoposte alle prescrizioni della legislazione alimentare; d) il principio di trasparenza, grazie al quale il consumatore è messo in condizione di essere adeguatamente informato, senza inganno, sulle caratteristiche e qualità degli alimenti; e) i principi di prevenzione e precauzione, i quali consentono di identificare in anticipo e scongiurare eventuali rischi per la salute. Si è successivamente proceduto con l’analisi delle caratteristiche, della ratio e dei destinatari della legislazione alimentare i cui attori principali - individuati dall’art. 3 del regolamento del 2002 - seppure assolutamente rispondenti a quelli che nella disciplina consumeristica vengono denominati “professionista e consumatore”, non sono con questi ultimi pienamente identificabili. Le normative in questione si prestano tuttavia ad un’interpretazione compatibile dalla quale emerge una figura di consumatore “rivisitata” ai fini dell’applicazione delle regole del codice del consumo al settore alimentare: si assiste, nello specifico, all’identificazione del consumatore con ogni persona “fisica” che non “utilizzi” concretamente il prodotto nell’ambito di un’operazione o attività d’impresa del settore alimentare, con il conseguente superamento della rilevanza della “estraneità dello scopo” perseguito dal soggetto a beneficio della sua effettiva realizzazione. Nel quadro così delineato, viene posto in evidenza come il contratto di compravendita di alimenti possa e debba senz’altro essere ricompreso nella disciplina speciale dei “contratti del consumatore” contenuta nel codice del consumo, la quale si fonda su regole di riequilibrio del contratto ancorate a una presunzione oggettiva di “disparità di potere contrattuale” che si ricava dal fatto oggettivo del compimento di un atto di consumo e prescinde, dunque, dalle qualità soggettive dell’autore. Dopo aver individuato la nozione di “prodotto alimentare”, i cui contorni risultano tracciati all’interno dell’art. 2 del regolamento n. 178 del 2002, si è proceduto con l’analisi delle denominazioni merceologiche legali degli alimenti, che consentono al legislatore nazionale di assegnare uno specifico nome a un dato prodotto alimentare, individuando la composizione necessaria affinché quel prodotto possa assumere la denominazione imposta dalla legge. Si è al riguardo posto in evidenza come tale meccanismo sia inevitabilmente destinato a scontrarsi con il principio di diritto comunitario che impedisce agli Stati membri di frapporre ostacoli non tariffari alla libera circolazione delle merci. Attraverso le denominazioni merceologiche ciascuno Stato è infatti legittimato ad adottare una “regola tecnica” mediante la quale viene prescritta la composizione di un determinato prodotto alimentare cui è collegato uno specifico nome. Ciò determina però il possibile verificarsi di una circostanza particolarmente delicata nella quale il nome assegnato da uno Stato ad un prodotto risulti identico a quello attribuito al prodotto di un altro Stato membro avente composizione diversa. Il risultato sarà che prodotti con la medesima denominazione legale risulteranno, in realtà, totalmente diversi quanto a composizione, rendendo impossibile l’esportazione del prodotto che, nominato in un certo modo dallo Stato esportatore, viene associato all’interno dello Stato importatore ad un alimento composto in maniera differente. Ecco in che modo si arriva, attraverso le denominazioni merceologiche legali, al concretizzarsi di quella “barriera all’importazione” espressamente vietata dall’art. 34 TFUE, la quale costituisce il principale ostacolo alla libera circolazione delle merci. Si è sentita così l’esigenza di elaborare un nuovo principio che potesse in qualche modo frapporsi a un’incontrollata applicazione del canone del mutuo riconoscimento. A dare avvio a tale processo fu proprio la Corte europea di giustizia con una sentenza particolarmente significativa (Smanor), il cui principio di diritto è stato successivamente positivizzato dal legislatore europeo con la direttiva 97/4 - attuata in Italia mediante il d. lgs. 25-02-2000 n. 68 - nella quale si stabilisce che «la denominazione di vendita dello Stato membro di produzione non può essere usata quando il prodotto che essa designa si discosta in maniera sostanziale dal prodotto conosciuto sul mercato nazionale con tale denominazione». Particolare attenzione è stata dedicata, nella fase conclusiva del primo capitolo, al principio di precauzione e a quello di sicurezza alimentare, con particolare riguardo ai concetti di rischio e pericolo nonché alle condizioni che consentono di verificare se un alimento risulti dannoso per la salute. Secondo quanto prescritto dall’art. 14 del regolamento 178/2002, «gli alimenti a rischio non possono essere immessi sul mercato», il quale deve dunque costituirsi come un mercato di alimenti sani e sicuri. In questo quadro, il sistema di tutela predisposto dall’ordinamento europeo e da quello nazionale risulta improntato essenzialmente ad una logica di tipo precauzionale che si costituisce come essenziale criterio guida qualora ci si muova nel territorio dell'incertezza. E' noto, d’altronde, come il diritto all'alimentazione non sia retto unicamente da norme specifiche connotate da un elevato tecnicismo, essendo il suo governo rimesso anche all'operatività di principi generali e, tra questi, del principio di precauzione. Si tratta di un principio oggi positivizzato, in materia alimentare, all’interno dell’art. 7 del regolamento 178/2008 ai sensi del quale, qualora in circostanze specifiche venga individuata la possibilità di effetti dannosi per la salute ma permanga una situazione di incertezza sul piano scientifico, possono essere adottate misure provvisorie di gestione del rischio le quali, proporzionate al livello di protezione ricercata, prevedano restrizioni all'immissione sul mercato dell'alimento o del mangime, quando vi sia motivo di sospettare che l'alimento sia a rischio nonostante la sua conformità a regole comunitarie. Il secondo capitolo è incentrato sul tema del “diritto all’informazione” del consumatore di alimenti, il quale compie scelte spesso inconsapevoli e non adeguate a causa delle distorsioni cognitive che caratterizzano qualunque processo decisionale. In questo ordine di idee si inserisce l’essenza stessa dell’“informazione”, che se da un lato costituisce strumento particolarmente efficace di prevenzione e protezione dalle alterazioni conoscitive, dall’altro rappresenta essa stessa la causa principale di tali torsioni, dalla quale risultano imprescindibili le difficoltà connesse all’ambiguità del linguaggio, alla profonda diversità intercorrente tra un’informazione e l’altra e al tipo di mezzo impiegato per la sua trasmissione e divulgazione. Per tale ragione il legislatore europeo ha imposto al professionista specifici obblighi informativi che hanno segnato il passaggio da una tutela di tipo individuale ad una di tipo collettivo, fondata sull’affidabilità di un mercato le cui regole non riguardano più soltanto la concorrenza, ma la sicurezza dei prodotti immessi in circolazione all’interno di un sistema dal quale rimangono escluse (come emerge dalla disciplina sulle pratiche commerciali scorrette) le false informazioni o l’omissione di informazioni rilevanti. È stata così predisposta una griglia “uniforme” delle informazioni che il produttore sarà tenuto a fornire al consumatore attraverso l’etichetta la quale, a sua volta, risulta strettamente connessa ad un ampio ventaglio di informazioni che non riguardano il compimento dell’atto negoziale di vendita ma che concernono, al contrario, la fase precedente al concreto atto di scambio. Il riferimento immediato è ai messaggi pubblicitari, il cui fine è quello di promuovere il prodotto alimentare e di fornire, al contempo, indicazioni specifiche in una fase che si colloca, dunque, anche fuori dal contratto. Nel corso del presente lavoro si è dunque dimostrato come il consumatore risulti titolare di un vero e proprio “diritto ad essere informato”, ossia di un diritto soggettivo che coinvolge non soltanto la posizione del singolo individuo, bensì l’intera collettività. Ciò emerge con particolare evidenza dal regolamento europeo 1169 del 2011, il quale rende per la prima volta “uguali” e “obbligatorie” per tutti gli Stati membri le regole in materia di etichettatura, presentazione e pubblicità dei prodotti alimentari. Al riguardo si è posto in luce come l’informazione del settore alimentare esuli dal principio di correttezza nelle trattative di cui all’art. 1337 del nostro codice civile costituendo, al contrario, «elemento il cui contenuto è standardizzato e conformativo del contenuto del contratto»: proprio in considerazione del fatto che è la legge stessa a considerare obbligatorie determinate informazioni sulla salute, queste ultime sono infatti destinate ad incidere sulla definizione del contenuto contrattuale e sul consenso del consumatore alla sua conclusione. L’etichetta di un prodotto alimentare contiene una serie di dati considerati obbligatori per tutti gli alimenti. Fra questi assumono particolare rilievo il nome del prodotto, quello del produttore e del luogo di produzione, la data di scadenza, gli ingredienti da cui è composto e le informazioni sulla salute in caso di allergeni o di organismi geneticamente modificati. Uno spazio particolarmente ampio è dedicato, nel secondo capitolo, proprio all’analisi delle specifiche informazioni obbligatorie e al modo in cui le stesse andranno presentate ai fruitori finali, con particolare riferimento ai criteri di leggibilità e ai requisiti linguistici imposti dal legislatore. Accanto alle indicazioni obbligatorie che l’ordinamento europeo prescrive agli artt. 9 e 10 del reg. 1169/2011, l’art. 39 prevede - nelle sole ipotesi in cui ricorrano motivi specifici legati alla protezione della salute pubblica, alla tutela dei consumatori, alla prevenzione delle frodi, alla salvaguardia dei diritti di proprietà industriale e commerciale, delle indicazioni di provenienza, delle denominazioni di origine controllata e alla repressione della concorrenza sleale - la facoltà per gli Stati membri di adottare disposizioni che impongano ulteriori indicazioni obbligatorie per tipi o categorie specifiche di alimenti. In etichetta potranno così figurare altre indicazioni “obbligatorie secondo il diritto nazionale” a condizione che lo Stato notifichi preventivamente alla Commissione e agli altri Stati membri la normativa che intenderà adottare in materia di informazioni sugli alimenti con l’indicazione dei motivi che sorreggono la necessità di una sua attuazione. L’Unione sarà dunque tenuta a rispettare e riconoscere a ciascuno Stato il proprio spazio di sovranità, garantendo la possibilità che esso intervenga tutte le volte che ciò si renda necessario per esigenze nazionali, a condizione che ricorra uno dei motivi predeterminati dall’Unione stessa, che vengano rispettate le procedure dello stand still e che sia la Commissione, in ultima istanza, a valutare l’impatto di quella regola tecnica statale sugli altri Stati e, dunque, sull’obiettivo primario di unificazione del mercato interno. Un ampio spazio è ancora dedicato, nel presente lavoro, al tema della qualità dei prodotti agroalimentari nella disciplina dell’Unione europea. Si è chiarito, al riguardo, come il produttore di alimenti abbia la facoltà di inserire in etichetta, in aggiunta alle informazioni obbligatorie, anche alcune indicazioni cd. “volontarie” volte ad esaltare specifiche qualità e pregi del prodotto messo in vendita, alle quali il consumatore pone particolare attenzione prima di accingersi alla conclusione del contratto. In tali ipotesi il produttore dovrà rispettare un unico limite, quello connesso all’obbligo di veridicità e chiarezza delle informazioni fornite, in modo da tutelare non soltanto il proprio interesse a vincere la gara per la quale concorre sul mercato con gli altri imprenditori, ma anche quello del consumatore al compimento di scelte libere e razionali. Si è così proceduto, in quest’ottica, all’analisi del concetto di “qualità” di un prodotto alimentare, la cui interpretazione dovrebbe consentire di individuare quelle caratteristiche “obiettive” di qualità che non siano prevalentemente legate a mere sensazioni soggettive. Il contenuto specifico di alcune indicazioni volontarie di qualità è disciplinato dall’Unione europea: il riferimento è, in particolare, alle “indicazioni comunitarie di qualità” espresse con segni comunitari (dop, igp, stg, biologico), accanto alle quali il produttore ha inoltre la facoltà di inserire altre informazioni (“facoltative di qualità”) al fine di catturare l’attenzione del consumatore su caratteristiche di particolare pregio conseguite dal prodotto commercializzato. Fra le informazioni volontarie che il produttore ha il potere di comunicare al consumatore per conquistarne la fiducia figurano, infine, le “indicazioni volontarie certificate”, attraverso le quali sarà possibile constatare la corrispondenza al vero dei requisiti di qualità proclamati dal produttore ed espressi in una tecnica particolare o in disciplinari determinati o secondo specifiche definizioni. Un ulteriore profilo del quale ci si è occupati riguarda la disciplina del metodo di produzione biologica, fondato su un meccanismo di gestione dell’azienda agricola e di produzione caratterizzati dall’impiego di accurate pratiche ambientali, da un elevato livello di biodiversità che garantisce la presenza e lo sviluppo di diverse varietà sul territorio, dalla salvaguardia dei terreni - i quali vengono trattati con materiali organici e con tecniche agricole volte a incoraggiarne la fertilità - e dall’osservanza di rigidi criteri sul benessere degli animali. È stato tuttavia chiarito come l’attestazione di biologicità non assicuri che il prodotto agricolo sia “completamente” sano, ma è volta a garantire unicamente che lo stesso sia ottenuto senza l’impiego di prodotti chimici in ciascuna sua fase, dalla concimazione della terra alla coltivazione dei vegetali alla somministrazione di alimenti agli animali. Dovrà trattarsi di prodotti ottenuti principalmente da ingredienti di origine agricola nei quali potranno essere utilizzati esclusivamente additivi, ausiliari di fabbricazione, aromi, acqua, sale, preparazioni a base di microrganismi ed enzimi, minerali, oligoelementi e vitamine, ma non potranno in ogni caso escludersi eventuali contaminazioni ambientali. La coltivazione biologica è, al riguardo, destinata a scontrarsi con l’inadeguatezza degli strumenti di tutela predisposti a favore del produttore biologico nelle ipotesi di inquinamento genetico causato da colture altrui, per le quali è attualmente previsto il rimedio del risarcimento del danno nei soli casi in cui si configuri una colpa del conduttore agricolo per non avere osservato i piani regionali ed aziendali di coesistenza. Nell’ultimo capitolo si evidenzia infine come l’esperibilità, ex post, dei rimedi che il legislatore europeo e quello italiano contemplano nel caso in cui si verifichi un danno al consumatore di alimenti non riesca ancora a rassicurare sul raggiungimento di una tutela piena ed effettiva della sua integrità fisica e del diritto all’informazione ad essa connesso. Ragionando in termini di rimedi privatistici, sembra infatti che, al di là di isolate eccezioni, lo strumento del ripristino dello status quo ante sul piano contrattuale, scaturente dal sistema di invalidità predisposto dal nostro ordinamento, non sia in grado di offrire una piena tutela satisfattiva al consumatore di alimenti in conseguenza della violazione degli obblighi informativi imposti al professionista dal legislatore europeo. Peraltro, considerata la celere deperibilità dei prodotti alimentari e il loro esiguo valore se acquistati singolarmente, e tenuto altresì conto della peculiarità del mercato alimentare, anche i rimedi predisposti dall’art. 130 cod. cons. nell’ambito della vendita di beni di consumo risulteranno privi di effettiva efficacia per il consumatore. Nonostante la prevalenza accordata dal diritto privato europeo alla tutela in natura - maggiormente in grado di soddisfare il principio di effettività - al settore della vendita di alimenti come beni di consumo potrà applicarsi anche lo strumento del risarcimento dei danni, soprattutto qualora si intenda perseguire una più ampia tutela del fondamentale diritto «ad una adeguata informazione e ad una corretta pubblicità» garantito dall’art. 2, lett. c), cod. cons. Qualora poi la violazione degli obblighi informativi abbia arrecato un danno al consumatore, potrà ravvisarsi un profilo di responsabilità aquiliana ai sensi degli artt. 2043 s. c.c. se solo si consideri che la tutela della situazione giuridica del singolo, lesa dal professionista, è in realtà volta alla salvaguardia dell’intera collettività e del mercato, alla correttezza degli scambi e alla protezione della salute dei cittadini. Non può tuttavia trascurarsi un dato fondamentale, quello per il quale le informazioni inserite in etichetta rappresentano il contenuto diretto della proposta contrattuale accettata dal consumatore proprio a seguito della verifica delle informazioni predisposte dal produttore. Il consumatore di alimenti, infatti, stipula pur sempre un contratto di scambio, nel quale l’informazione costituisce lo strumento cardine per la formazione del consenso e per la determinazione del contenuto degli obblighi contrattuali. In questo quadro, l’operatore che fornisce informazioni incomplete o ingannevoli sul proprio alimento violerà non soltanto il generale dovere di correttezza e buona fede che nelle trattative costituisce fonte di responsabilità precontrattuale ex art. 1337 c.c., ma si renderà anche contrattualmente responsabile per inadempimento della «promissio negoziale», tenuto conto, peraltro, della natura imperativa delle indicazioni contenute in etichetta. Ad ogni modo, qualunque sia il profilo di responsabilità al quale si intenda ricondurre il rimedio risarcitorio, non potrà che emergere, ancora una volta, un certo scetticismo sul versante della effettività della tutela: il consumatore di alimenti, infatti, difficilmente sarà incentivato a ricorrere alla via giurisdizionale al fine di attivare i rimedi risarcitori (fatta eccezione per il pregiudizio economico scaturente da un grave danno alla salute), e ciò a causa di una serie di fattori legati, in primo luogo, all’esiguo valore della pretesa azionabile, ma anche, e soprattutto, alle difficoltà connesse all’onere di provare il danno concretamente subìto. Analoghi dubbi emergono, al riguardo, anche con riferimento alla disciplina del danno da prodotto difettoso, tenuto conto delle notevoli difficoltà alle quali va incontro il consumatore che intenda dimostrare la mancanza di sicurezza del prodotto provando il difetto, il danno e il nesso eziologico tra difetto e danno. Tali considerazioni, unite alla complessità di un processo che spesso vede coinvolti una pluralità di responsabili a seconda della dimensione della catena alimentare, determineranno il consumatore di alimenti ad agire nelle sole ipotesi di intossicazioni gravi o addirittura collettive abbandonando l’ipotesi del rimedio risarcitorio individuale. Qualora ad essere violato sia l’obbligo di veridicità e non decettività delle informazioni rese dal professionista al consumatore in fase precontrattuale, trattandosi di informazioni rivolte al mercato e, dunque, ad un destinatario indeterminato, il consumatore potrà infine ricorrere al generale regime sanzionatorio-rimediale predisposto dalla disciplina sulle pratiche commerciali scorrette di cui alla direttiva 2005/29. Gli articoli 21 s. cod. cons. individuano, nelle condotte ingannevoli - commissive o omissive - e in quelle aggressive, le modalità di estrinsecazione delle pratiche commerciali scorrette predisponendo, per ciascuna di queste ipotesi, una doppia lista nera all’interno della quale sono elencate le pratiche considerate “comunque” vietate. Il professionista la cui condotta integri una delle pratiche precluse dall’ordinamento sarà soggetto alle conseguenze dell’azione inibitoria promossa dal consumatore che vi abbia interesse o a quelle scaturenti dal provvedimento che l’Autorità garante della concorrenza e del mercato ha comunque il potere di emanare d’ufficio: quest’ultima, in particolare, potrà porre fine ai contenuti falsi dei messaggi pubblicitari o di quelli inseriti in etichetta o nella presentazione del prodotto imponendo all’operatore economico di adeguare il messaggio a parametri di verità e correttezza ed imponendo, nelle ipotesi di violazioni più gravi, sanzioni amministrative pecuniarie. Da un’attenta analisi dei rimedi esperibili contro le pratiche commerciali scorrette è emerso che - salve rare ipotesi - la tutela pubblicistica affidata ai provvedimenti dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato sia quella maggiormente in grado di assicurare un certo livello di effettività per il soddisfacimento delle pretese del consumatore di alimenti, a nulla (o poco) valendo, almeno in questo particolare settore, il sistema rimediale predisposto dalla nostra disciplina codicistica. Dal quadro tracciato nel presente lavoro è emerso, in conclusione, come le maggiori lacune dell’attuale sistema di tutela predisposto a favore del consumatore di alimenti si registrino sul fronte sanzionatorio, e ciò non soltanto a livello europeo - nel quale il legislatore si è preoccupato di prevedere la sola sanzione dell’incommerciabilità del bene che non risponda ai criteri di sicurezza e informazione prescritti - bensì anche a livello nazionale, nel cui ambito i rimedi civilistici si rivelano inadeguati per le peculiarità che il mercato degli alimenti presenta. Ecco perché si avverte sempre più la necessità di intervenire in una fase che preceda e in qualche modo “anticipi” il verificarsi di un danno all’interno di un mercato che ha assunto ormai una dimensione mondiale: per tale ragione è necessario che gli sforzi della dottrina convergano sulla ricerca di una soluzione in grado di garantire non soltanto la quantità, ma anche la “qualità” delle informazioni messe a disposizione del consumatore.
URI: http://hdl.handle.net/2307/40509
Diritti di Accesso: info:eu-repo/semantics/openAccess
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T - Tesi di dottorato

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