Please use this identifier to cite or link to this item: http://hdl.handle.net/2307/40469
Title: Città e diritto : i beni pubblici urbani a fruizione collettiva
Authors: Biondini, Paola
Advisor: Di Lascio, Francesca
Keywords: SPAZI PUBBLICI
BENI PUBBLICI
BENI COMUNI
Issue Date: 1-Jun-2017
Publisher: Università degli studi Roma Tre
Abstract: Il lavoro è specificamente dedicato ai beni pubblici urbani a fruizione collettiva (strade, piazze, parchi, giardini ed altre aree verdi e spazi pubblici) ovverosia quei beni che in uno spazio assai complesso e strutturato come quello della città rendono utilità fondamentali per la vita urbana in quanto consentono la circolazione delle persone o viceversa la sosta per finalità di svago e ricreazione, di incontro, riunione e comunicazione sociale, culturale, politica. La prima parte del lavoro è rivolta a ripercorrere il modo in cui il diritto nelle diverse epoche storiche ha considerato e disciplinato l’appartenenza, l’uso e la tutela dei beni a fruizione collettiva con il fine di rintracciare e seguire l’evolversi nel tempo delle categorie di bene pubblico, bene comune, bene collettivo: nel diritto romano, dall’età repubblicana all’età imperiale, nel diritto medievale e nel diritto moderno. Si riassume il regime dei beni pubblici secondo il codice civile italiano del 1942, e prima ancora secondo il codice del 1865, e si ripercorrono le diverse teorie che la dottrina ha formulato in tema di beni pubblici, ma anche di beni comuni e di beni collettivi, fino a quelle proposte a seguito delle normative sulle privatizzazioni formali e sostanziali dei beni pubblici. Si individua come il diritto ha delineato il rapporto tra i beni ad uso pubblico, i relativi titolari e i fruitori collettivi, i poteri, i diritti e doveri di tali soggetti, le relative forme di garanzia. Il quadro che ne emerge costituisce punto di riferimento per la comprensione di almeno parte dei motivi sottesi al dibattito sui beni comuni, sviluppatosi in Italia. Lo sgretolamento del dogma dell’inalienabilità dei beni pubblici, ed in particolare dei beni demaniali, operato dalle disposizioni sulla dismissione e la valorizzazione di tali beni, hanno spinto anzitutto la dottrina, ma non soltanto essa, alla ricerca di nuove nozioni e di nuove discipline per i beni pubblici. Di ciò costituisce palese testimonianza lo schema di disegno di legge delega per la riforma delle disposizioni del Codice civile sui beni pubblici, elaborato dalla Commissione di esperti presieduta da Stefano Rodotà. Proprio in quel contesto, infatti, è stata proposta una definizione di beni comuni, che nonostante non abbia finora avuto seguito positivo, resta comunque elemento di confronto per la discussione tecnico-giuridica sui beni comuni. La seconda parte del lavoro è dedicata ad analizzare il più ampio contesto nel quale il dibattito sui beni comuni ha preso le mosse. Sono presi in considerazione anzitutto gli studi economici sui beni e poi in particolare quelli economici e politologici sui beni comuni (common pool resources o semplicemente commons) e sull’azione collettiva, i quali, a seguito dell’attribuzione del premio Nobel per l’economia a Elinor Ostrom, hanno avuto vasta risonanza a livello internazionale e sono filtrati nella discussione scientifica in campo giuridico specialmente attraverso l’analisi economica del diritto. Tali studi sono divenuti infatti un punto di riferimento costante nel dibattito sui beni comuni. Secondo quegli studi i beni comuni sono quelli che non sono facilmente escludibili nel consumo, ma allo stesso tempo, diversamente dai beni pubblici puri, sono a consumo rivale, il che li pone a rischio di sovrasfruttamento e distruzione (c.d. tragedia dei beni comuni). Mentre le teorie più diffuse si sono sempre rivelate favorevoli o alla privatizzazione di tali beni o all’attribuzione alla proprietà, alla regolazione e alla gestione dello Stato o comunque dei poteri pubblici, la Ostrom, partendo dalle teorie dell’azione collettiva, secondo le quali gli individui sono persone competenti in grado di adottare strategie cooperative per risolvere problemi, e studiando diversi casi di gestione degli usi di risorse naturali comuni da parte delle collettività di utenti, ha individuato le caratteristiche che rendono efficaci tali sistemi, a prescindere dalla proprietà pubblica, privata o collettiva delle risorse. Sul piano tecnico-giuridico sono esaminati, oltre che i contributi dottrinali, i più noti risultati che dal dibattito italiano sono scaturiti: il già menzionato schema di disegno di legge delega per la riforma delle norme del Codice civile sui beni pubblici elaborato dalla Commissione Rodotà e le sentenze gemelle delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione sulle valli da pesca della laguna di Venezia. In tali ambiti il fulcro del tema si sposta sul piano dei diritti alla fruizione collettiva (e della connessa tutela giurisdizionale) di beni materiali le cui utilità sono strumentali all’esercizio di diritti fondamentali e al libero sviluppo della persona. Quelle cose apparterrebbero alla nuova categoria dei beni comuni i quali, a prescindere dalla titolarità pubblica o privata, dovrebbero essere tutelati e salvaguardati dall’ordinamento giuridico anche a beneficio delle generazioni future. Come evidenziato da parte della dottrina, nel progetto della Commissione il profilo della gestione, centrale per gli studi economico-politologici sopra menzionati, sembra passare in secondo piano tanto è vero che per i beni comuni in proprietà pubblica, oltre che un regime extra-commercium, si prevede una gestione da parte degli stessi soggetti pubblici. Le Sezioni Unite della Cassazione, invece, partendo dal diritto vigente e sulla base di una interpretazione dell’ordinamento alla luce degli articoli 2, 9 e 42 della Costituzione, ipotizzano l’esistenza di una categoria di beni comuni in relazione alla quale “l'aspetto dominicale della tipologia del bene in questione cede il passo alla realizzazione di interessi fondamentali indispensabili per il compiuto svolgimento dell'umana personalità”. La Cassazione tuttavia finisce per concentrarsi sui beni comuni di proprietà pubblica di cui sottolinea la “duplice appartenenza alla collettività ed al suo ente esponenziale”, la titolarità di servizio da parte di quest’ultimo e i connessi oneri di una “governance che renda effettive le varie forme di godimento e di uso pubblico del bene”. Il lavoro si concentra poi sui contributi speculativi riguardanti la specifica tipologia dei beni comuni urbani, poiché tra essi rientrano anche i beni pubblici urbani a fruizione collettiva, oggetto della ricerca. Gli studi sui commons si sono infatti progressivamente estesi a beni non strettamente qualificabili come comuni in senso economico, ma comunque oggetto di uso condiviso ed allo stesso tempo al centro di problemi che finiscono per mettere a rischio la fruizione collettiva o i beni stessi (privatizzazione, degrado, etc.). Anche in tal caso la letteratura sui commons, in larga parte di matrice americana, si è dedicata precipuamente all’analisi di forme alternative di gestione sperimentate in ambiti urbani, mettendone in luce vantaggi e criticità. Il contesto urbano sotto il profilo della dimensione delle collettività di riferimento dei beni si presenta come terreno elettivo per la sperimentazione di forme di gestione in comune o comunque partecipata, ma l’estrema varietà e mutevolezza dei soggetti fruitori dei beni urbani rende più difficile la definizione e la realizzazione di strategie collaborative di azione collettiva. Sulla spinta delle esperienze realizzate anzitutto oltre oceano e degli studi ad esse dedicate, si può dire che le teorie sui beni comuni stiano trovando terreno applicativo anche in Italia, come viene analizzato specificamente nell’ultima parte del lavoro. La terza parte del lavoro riguarda in particolare i beni pubblici urbani a fruizione collettiva. Essi costituiscono una categoria meramente descrittiva che ricomprende i beni pubblici ad uso diretto della collettività esistenti nelle realtà urbane e dunque anzitutto strade, piazze, giardini e parchi urbani. Secondo le categorie delineate nel Codice civile sono in parte beni demaniali, in parte beni del patrimonio indisponibile; ma secondo categorie delineate dalla dottrina giuridica sono qualificabili come beni a destinazione pubblica, predisposti e gestiti dall’amministrazione pubblica affinché siano utilizzati nel modo stabilito dalla legge e dunque, nel caso in questione, affinché siano fruiti direttamente dalla collettività. L’interesse pubblico inerente a tali beni è indirettamente ricavabile anche dalla normativa urbanistica statale (e regionale), secondo la quale il Comune nel pianificare l’assetto del territorio deve non solo rispettare rapporti massimi tra spazi destinati ad usi privati, residenziali o produttivi e “spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi” ma anche assicurare dotazioni minime di questi ultimi per ciascun abitante. L’individuazione delle aree riservate agli spazi pubblici – benché non comporti necessariamente la trasformazione effettiva delle aree in questione in spazi pubblici, né da parte pubblica, né da parte privata - costituisce il primo passo del processo teso all’espropriazione delle aree medesime ed alla realizzazione delle opere destinate all’uso pubblico, che, se facenti capo all’ente comunale (od eventualmente ad altro ente pubblico) vengono acquisite al demanio o al patrimonio indisponibile. Esaminato dunque il regime giuridico dei beni pubblici urbani a fruizione collettiva e la normativa urbanistica inerente alle aree destinate a spazi pubblici, il lavoro si concentra sulla tutela delle situazioni giuridiche soggettive facenti capo ai cittadini-utenti in ordine all’uso dei beni pubblici urbani a fruizione collettiva ma anche in ordine alle dotazioni minime quantitative di spazi pubblici previste dalla legge e dagli strumenti urbanistici. Vengono in particolare analizzate alcune sentenze da cui emergono le possibilità di tutela degli interessi dei cittadini all’uso dei beni pubblici urbani a fruizione collettiva a fronte dei poteri pubblici di gestione dei beni e di governo del territorio. Tali interessi risultano tutelabili da coloro che, sulla base del criterio della vicinitas, possano vantare un legame stabile con l’area di riferimento per l’uso del bene o dello spazio pubblico per ragioni residenziali, lavorative o simili e pertanto possano essere lesi dagli atti impugnati per quanto concerne la possibilità di fruire dei beni in questione e dunque la qualità della loro vita. Nella misura in cui siano coinvolti interessi ambientali sono legittimate a ricorrere anche le associazioni ambientaliste, riconosciute dal Ministero dell’ambiente e non. Delineato il quadro normativo e giurisprudenziale in tema di beni pubblici urbani a fruizione collettiva, l’ultima parte del lavoro esamina alcune recenti disposizioni legislative statali nonché alcuni regolamenti comunali – più precisamente il regolamento del Comune di Bologna “sulla collaborazione tra cittadini e amministrazione per la cura e la rigenerazione dei beni comuni urbani”, modello di riferimento per l’adozione di atti analoghi da parte di altri Comuni – che partendo dal principio di sussidiarietà orizzontale si volgono a promuovere la partecipazione dei cittadini alla realizzazione, al recupero, alla manutenzione e nell’insieme alla valorizzazione, in senso lato, di beni di interesse collettivo fra i quali i beni pubblici urbani a fruizione collettiva che compongono gli spazi pubblici. Particolare attenzione è rivolta ai menzionati regolamenti comunali, che propongono una nuova definizione di beni comuni e, in particolare, di beni comuni urbani. Tale definizione non riguarda intere tipologie di beni-cose, ma soltanto quei singoli beni, di proprietà pubblica o privata, che, riconosciuti dai cittadini e dall’Amministrazione come “funzionali al benessere individuale e collettivo”, gli stessi cittadini, sulla base di accordi con l’amministrazione (ed eventualmente con il privato proprietario), decidono di curare o rigenerare con concreti, specifici interventi – integrativi rispetto a quelli posti in essere dai titolari dei beni stessi - volti ad assicurarne o migliorarne la fruizione da parte di tutta la collettività. Si tratta di una definizione che, da un lato, si ispira, almeno in parte, ai modelli di gestione dei beni comuni suggeriti dagli studi economici e politologici cui si è fatto riferimento, dall’altro, considera specificamente gli “spazi pubblici” – definiti come “aree verdi, piazze, strade, marciapiedi e altri spazi pubblici o aperti al pubblico, di proprietà pubblica o assoggettati ad uso pubblico” – di cui, in attuazione dell’art. 118, c. 4 Cost., promuove una “gestione condivisa” tra amministrazione e cittadini, così rafforzando ulteriormente il legame tra questi ultimi e gli spazi e i beni pubblici urbani a fruizione collettiva. Sono già più di cento i Comuni che hanno approvato il regolamento e molti altri hanno avviato le procedure per l’approvazione. Benché gli interventi proposti e realizzati dai cittadini in applicazione dei regolamenti sui beni comuni urbani siano il più delle volte semplici e non di grandissimo rilievo, non si può negare che i modelli organizzativi e procedimentali proposti nell’ambito di quei regolamenti appaiono di sicuro interesse, non soltanto per la gestione dei beni urbani a fruizione collettiva ma più in generale con riguardo al rapporto tra cittadini e governo ed amministrazione della città ed alla definizione e realizzazione delle politiche urbane.
URI: http://hdl.handle.net/2307/40469
Access Rights: info:eu-repo/semantics/openAccess
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T - Tesi di dottorato

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