Please use this identifier to cite or link to this item: http://hdl.handle.net/2307/3816
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dc.contributor.advisorSerges, Giovanni-
dc.contributor.authorCoraggio, Camilla-
dc.date.accessioned2015-03-06T14:54:43Z-
dc.date.available2015-03-06T14:54:43Z-
dc.date.issued2011-03-09-
dc.identifier.urihttp://hdl.handle.net/2307/3816-
dc.description.abstractIl presente lavoro è volto ad affrontare il tema della “ragionevolezza” nella giurisprudenza della Corte costituzionale in una prospettiva inedita. Si sono volute, infatti, analizzare le declinazioni ch il sindacato di ragionevolezza assume quando viene trasposto dal tradizionale ambito del giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale alle altre competenze del giudice costituzionale. A tal fine, non si è potuto tuttavia prescindere da una sintetica ricostruzione dell’evoluzione che, in quella originaria sede, ha caratterizzato il “principio” di ragionevolezza, e che si è risolta in uso crescente e sempre più penetrante del medesimo. Si è dunque dato conto, in una prospettiva diacronica, dell’originario legame con il principio di uguaglianza e della progressiva emancipazione da quest’ultimo e dal conseguente giudizio a struttura ternaria. Si è poi ripercorso il dibattito dottrinale sviluppatosi sul principio di ragionevolezza in senso stretto, con particolare attenzione ai tentativi dottrinari di classificazione delle diverse tecniche argomentative utilizzate dal giudice costituzionale in materia. Si è ritenuto, tra le ricostruzioni riportate, di accogliere la tripartizione che individua gli argomenti di razionalità sistematica, quelli di ragionevolezza strumentale e quelli di giustizia/equità. I primi, in particolare, affondano le radici nel principio di non contraddizione e si manifestano nel cosiddetto sindacato di coerenza, volto a rilevare antinomie di natura logica o teleologica, tramite la ricostruzione della ratio legis. Le tecniche argomentative annoverabili nella categoria della ragionevolezza strumentale, quali sono le figure del sindacato di congruenza, di pertinenza e di proporzionalità, si rivelano invece funzionali a valutare la plausibilità del rapporto di connessione causale tra i mezzi e i fini della legislazione. La terza e più discussa categoria di tecniche argomentative si risolve infine nell’identificazione della ragionevolezza con la giustizia nell’applicazione della legge: essa fonda il giudizio della Corte su un controllo interamente esterno, esperito in base a criteri volti a saggiare l’adeguatezza della legge alle esigenze del caso. Si è infine indagato il legame tra il canone in esame e il sindacato sul bilanciamento di valori e interessi costituzionali operato dal legislatore, che sembra tagliare trasversalmente le tre illustrate categorie, caratterizzando ogni giudizio di ragionevolezza. In proposito, la dottrina maggioritaria ritiene che non possa stabilirsi un criterio preventivo e assoluto per la soluzione del conflitto tra principi costituzionali antinomici, dovendosi piuttosto commisurare la prevalenza relativa di un principio sull’altro con riferimento alle circostanze del singolo caso. La funzione del bilanciamento, in questa prospettiva, si rivela quella di far emergere un ordine di precedenza di interessi costituzionali concreto, relativo e condizionato, istituendo una gerarchia temporanea e rivedibile tra principi costituzionali concorrenti. Esaurita la disamina delle diverse tecniche argomentative annoverabili nel genus della ragionevolezza, al fine di testimoniarne l’elasticità di tale canone, si è poi dato conto della sua variabile intensità, che consente al giudice costituzionale di farne un uso “deferente” o, al contrario, di effettuare un penetrante sctrict scrutiny, come accade, ad esempio, nei confronti delle leggi-provvedimento. Ancora, quanto all’estensione che l’uso del canone di ragionevolezza ha raggiunto, si è ricordato che esso si presta ad essere utilizzato sempre più frequentemente dagli stessi giudici comuni i quali, essendo tenuti ad effettuare, prima di rimettere la questione di legittimità costituzionale, un tentativo di interpretazione conforme a Costituzione delle disposizioni sospettate di incostituzionalità, cercano di darne una lettura che le renda ragionevoli. L’interpretazione conforme alla ratio dell’intervento normativo è, così, idonea a fugare il dubbio relativo alla violazione del principio di ragionevolezza. Da ultimo, viene in rilievo il tema del rapporto tra ragionevolezza ed eccesso di potere legislativo, con riferimento al quale si riporta il dibattito dottrinale, e, di conseguenza, ci si sofferma sulla questione dei limiti del sindacato del giudice costituzionale, con particolare attenzione al rischio che il giudizio di ragionevolezza si trasformi in uno scrutinio sul “merito” e sull’opportunità delle scelte legislative. All’esito dell’analisi della giurisprudenza resa nel giudizio in via incidentale, possono trarsi delle conclusioni sul piano della natura del canone di ragionevolezza, il quale appare evidentemente aver perso ogni legame con l’articolo 3 della Costituzione, ed essersi trasformato in un onnicomprensivo criterio di giudizio che non si lascia ingabbiare in schemi formalistici a causa della flessibilità, duttilità e imprevedibilità delle sue manifestazioni concrete. Preso atto della difficoltà di disegnarne uno statuto unitario, tali considerazioni portano a dubitare della qualificazione dogmatica della ragionevolezza come principio e come parametro di legittimità degli atti normativi: tali perplessità sono avvalorate dalla constatazione che del sindacato di ragionevolezza può trovarsi traccia, seppure “sotto mentite spoglie”, in tutte le competenze della Corte. Per spiegare il fenomeno, si assume come punto di partenza, riproponendosi di saggiarne la validità all’esito dell’analisi, la tesi che considera la ragionevolezza non tanto un principio costituzionale, seppur inteso come principio “architettonico” del sistema, bensì, piuttosto, un “metodo ermeneutico problematico”, dal quale scaturisce una conseguente tecnica decisoria. Esso si inserisce in una tendenza che vede l’abbandono progressivo dei modelli di ragionamento di tipo sillogistico-deduttivo a favore di moduli argomentativi più duttili e di tecniche di giudizio che valorizzano massimamente il fatto: quest’ultimo si fa interprete del valore e lo dispone alla mediazione con altri valori fondando un pensiero giuridico non concettuale e astratto, ma situazionale-concreto. La diffusione di tecniche di giudizio “destrutturate” che si fondano sulla persuasività e la ragionevolezza, nello specifico dell’esperienza italiana, sembra riconducibile alla carenza di prescrittività della Costituzione e alla crisi dell’idea della stessa come ordine di fini razionali e sistema unitario e coerente. La ragionevolezza, intesa come “ragione modulata”, in definitiva rappresenterebbe un metodo di interpretazione e applicazione dei parametri costituzionali, che li rende adeguati al caso concreto, e che si presta, per la sua neutralità, ad essere strumento sia dell’attivismo giurisprudenziale sia di un atteggiamento di deferenza verso il legislatore. Passando ad analizzare le declinazioni del sindacato di ragionevolezza negli altri giudizi, si è affrontato in primo luogo il giudizio in via di azione, caratterizzato da una maggiore astrattezza rispetto al sindacato in via incidentale. A tale scopo, si è evidenziata la situazione di asimmetria che caratterizza lo Stato e le regioni in tali controversie: in particolare, anche a seguito della riforma del titolo V, mentre il primo, dinanzi alla Corte, può invocare qualsiasi parametro costituzionale, le seconde sono legittimate ad impugnare una legge statale solo per una lesione della loro sfera di competenza salva la possibilità di invocare parametri diversi, quando la loro violazione ridondi in una compromissione diretta o indiretta delle attribuzioni regionali costituzionalmente. Ne deriva che la deducibilità di una violazione del canone di ragionevolezza nel giudizio in via diretta in caso di iniziativa statale non incontra limiti, mentre nell’ipotesi di impugnativa regionale è subordinata all’esistenza di un interesse concreto a ricorrere e alla prospettazione di una compromissione almeno indiretta delle competenze regionali. Purtuttavia, il canone di ragionevolezza ha trovato larga applicazione anche in questo giudizio, non tanto nella sua manifestazione di canone di coerenza e logicità, quanto come come fattore di interpretazione e applicazione delle norme attributive delle competenze. Nel “regime” antecedente la riforma del titolo V, la ragionevolezza ha rappresentato il contraltare e il limite all’utilizzo della clausola dell’interesse nazionale, usata dalla Corte costituzionale per flessibilizzare il riparto di competenze legislative in favore dello Stato. Inoltre, il principio di ragionevolezza ha preso sostanzialmente le forme di un sindacato di proporzionalità, volto a vagliare l’adeguatezza delle modalità collaborative previste dalla legge in ambiti caratterizzati dall’interferenza di materie statali e regionali. Esso è dunque servito a specificare ed integrare il principio di leale collaborazione, anch’esso nato dalla elaborazione pretoria del giudice costituzionale. Le manifestazioni più interessanti del giudizio di ragionevolezza si sono concretizzate, tuttavia, a seguito della suddetta riforma. In primo luogo, esso ha influenzato la stessa individuazione dei campi materiali elencati nell’articolo 117 Cost., per il tramite di un’interpretazione teleologicamente orientata degli stessi, ispirata al criterio di “prevalenza” del fine perseguito, che a tale scopo prende in considerazione gli obiettivi della disposizione impugnata, individuandone la ratio. In secondo luogo, la ragionevolezza ha rappresentato il criterio valutativo della legittimità degli interventi legislativi statali in ambiti spettanti alla potestà legislativa regionale, possibili in quanto ricollegabili alle cosiddette “materie trasversali”, o conseguenti alla “chiamata in sussidiarietà”. In queste due ipotesi la Corte ha consentito deroghe al riparto di competenze costituzionalmente fissato, riservandosi un controllo di adeguatezza, per evitare che la legislazione regionale sia sacrificata oltre lo stretto necessario. La legge statale adottata in virtù di competenze trasversali o dell’attrazione in sussidiarietà può infatti avere una intensità regolativa variabile: essa incontra il limite della proporzionalità dell’intervento. Con riferimento alle materie trasversali, definibili come quei titoli di competenza funzionali, che non individuano ambiti oggettivamente delimitabili ma valori da tutelare o fini da raggiungere, esse abilitano lo Stato ad intervenire interferendo con le sfere di competenza regionali e creando una fisiologica convivenza tra fonti statali e fonti regionali nel medesimo settore. L'intervento dello Stato deve tuttavia limitarsi alla disciplina di quegli aspetti strettamente connessi alla tutela del valore perseguito e, perciò, uniformarsi ai principi di adeguatezza e di proporzionalita', con cio' escludendo, ad esempio, la legittimita' di una normativa troppo dettagliata e puntuale o irragionevole. Dopo aver rapidamente ripercorso gli orientamenti giurisprudenziali affermatisi con riguardo alle singole materie trasversali, si osserva che il sindacato di ragionevolezza non presenta un’identica fisionomia con riferimento a tutti i settori: nell’ipotesi della determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni esso ruota intorno al procedimento cooperativo previsto a compensazione dell’invasione della sfera regionale, mentre, nella tutela della concorrenza, la chiave per sindacare la ragionevolezza della compressione dell’autonomia regionale risiede più propriamente nel contenuto che l’intervento statale deve presentare, riguardato alla luce della congruità rispetto al fine. Ancora, nella chiamata in sussidiarietà legislativa, fenomeno inaugurato con la celebre sentenza n. 303 del 2003, la ragionevolezza prende le forme del giudizio di proporzionalitàadeguatezza, teso per un verso a verificare che la disciplina statale sia logicamente pertinente, idonea alla regolazione delle suddette funzioni e limitata a quanto strettamente indispensabile a tale fine, e per un altro a specificare ed integrare il principio di leale collaborazione. Quanto al primo aspetto, si profila scrutinio stretto del giudice costituzionale, il quale si articola in due momenti: un test di indoneità, che verte sulla strumentalità logica della normativa statale rispetto all’esigenza unitaria che la giustifica; un secondo test di non eccessività, volto a vagliare la proporzionalità della disciplina dettata rispetto allo scopo, e, dunque, l’esistenza di uno strumento normativo che sacrifichi meno l’autonomia regionale. Quanto al secondo aspetto, l’attrazione in sussidiarietà può considerarsi legittima solo se la legge statale definisca un iter in cui assumano il dovuto risalto le attività finalizzate a coinvolgere le regioni nella valutazione dell’interesse pubblico sottostante all’assunzione delle funzioni da parte dello Stato. In conclusione, si osserva che i principi di ragionevolezza e proporzionalità, intesa come impiego del minimo mezzo e adeguata graduazione nella scelta dei meccanismi collaborativi, operano qui come canoni ermeneutici di misurazione dell'impatto delle clausole della Costituzione che consentono invasioni in ambiti riservati alla autonomia regionale. Il controllo di ragionevolezza, declinato nelle tecniche argomentative dell’”efficienza strumentale”, si è rivelato funzionale ad affrontare e risolvere i profili di irragionevolezza insiti nel testo costituzionale, attenuando le rigidità delle prescrizioni ivi contenute e dando a queste disposizioni un senso coerente con il quadro costituzionale complessivo. Nei conflitti intersoggettivi, strumento che, nel quadro della difesa dinanzi alla Corte costituzionale della sfera di attribuzioni dello Stato e delle regioni, si rivela complementare al giudizio in via diretta, si ripetono naturalmente le dinamiche ora illustrate. In questa sede non possono trovare ingresso censure che comportino l’uso da parte del giudice costituzionale degli argomenti di razionalità sistematica, logicità e coerenza, perché ciò comporterebbe uno scadimento del tono costituzionale del conflitto. Il canone di ragionevolezza è, piuttosto, strettamente connesso al principio di leale collaborazione tra enti, il quale si fonda su una concezione orizzontale-collegiale dei rapporti interistituzionali piuttosto che su una loro considerazione in senso verticale-gerachico. Tale principio è caratterizzato da una spiccata genericità, che impone continue precisazioni e concretizzazioni di natura amministrativa, legislativa e giurisdizionale, la cui proporzionalità è controllata dalla Corte attraverso una dettagliata analisi del comportamento adottato in concreto dai soggetti configgenti. Riconsiderando congiuntamente le tecniche argomentative utilizzate nei due giudizi in cui viene in considerazione il riparto di attribuzioni tra Stato e regioni, deve concludersi che la ragionevolezza sta assumendo i tratti di una vera e propria tecnica distributiva delle competenze, che integra e corregge il dettato costituzionale, utilizzata per adeguare l’impianto istituzionale alle dinamiche reali. Passando ai conflitti tra poteri, la trasposizione delle tecniche legate al canone della ragionevolezza è, da un lato, legata all’orientamento che ha ammesso l’impugnazione, in questa sede, di atti legislativi, seppur con diversi limiti; dall’altro, è strettamente connessa alla progressiva affermazione della figura conflitti da menomazione (in cui non si contesta l’usurpazione di una competenza, ma il modo in cui il soggetto agente ha esercitato attribuzioni proprie). Il sindacato della Corte, in tali ipotesi, finisce infatti per vertere sulle concrete modalità d’esercizio delle singole attribuzioni più che sulla titolarità astratta di queste. Alla luce degli ondivaghi orientamenti giurisprudenziali e dell’approccio casistico adottato dal giudice costituzionale in sede di conflitto, non è agevole individuare un criterio unitario in relazione alla latitudine e all’intensità del giudizio sul “cattivo esercizio” del potere, salva l’affermata preclusione di un sindacato “di merito” (che tuttavia non viene sempre rispettata.) Esemplare di tale atteggiamento del giudice costituzionale è il caso dei conflitti concernenti l’articolo 68 della Costituzione: il controllo della Corte si è, per un decennio, limitato ad una mera «verifica esterna» della delibera di insindacabilità, essendosi interpretata in modo puramente formale la possibilità di un sindacato sulla stessa. Si è poi avuta una vera e propria «inversione di tendenza» da parte del giudice costituzionale, il quale ha affermato che il suo scrutinio non si atteggia a giudizio sindacatorio su di una determinazione discrezionale dell’assemblea politica, ma investe direttamente il merito della controversia costituzionale sulla portata e l’applicazione dell’art. 68, 1° comma. I casi che si rivelano più interessanti nell’ottica della ragionevolezza, sono quelli in cui la Corte enuclea autonomamente i presupposti per la decisione del conflitto, con uno “sforzo creativo” che la porta a costruire da sé, in mancanza di parametri certi o in presenza di discipline poste principalmente da fonti subordinate alla Costituzione, il parametro in base al quale giudicare il comportamento o l’atto impugnato. Anche in questa sede il metodo interpretativo e la tecnica decisoria della ragionevolezza si lega fatalmente al principio di “leale collaborazione”, stavolta declinato nei rapporti tra poteri dello Stato e, talora, ricostruito in modo talmente ampio da apparire come un limite immanente non scritto all’esercizio del potere, non da tutti condiviso. Tramite l’utilizzo di questo schema di giudizio il giudice costituzionale si prefigge lo scopo di fissare il punto di equilibrio tra gli interessi in conflitto, bilanciando in concreto i poteri degli organi configgenti e perseguendo un indirizzo di “razionalizzazione del potere”. In proposito, si è detto che il giudizio di leale cooperazione non è altro che il giudizio di bilanciamento degli interessi applicato ai conflitti di attribuzione per interferenza. La caratteristica della graduabilità degli interessi costituzionali, risultato di specifici bilanciamenti ad hoc, corrisponde qui alla graduabilità dell’esercizio delle rispettive competenze. In particolare, il “modulo” cooperativistico si attaglia ai conflitti in cui la Corte debba mediare tra organi politici e organi giudiziari per l’integrazione delle reciproche competenze e si apprezza anche come mezzo per consentire alle varie istanze istituzionali di perseguire meglio i loro interessi sostanziali. Esempio paradigmatico di questo modus operandi si riscontra nei conflitti tra magistratura e Parlamento il cui oggetto sia il legittimo impedimento del parlamentare a partecipare alle udienze o nelle controversie che vedono contrapposte le commissioni d’inchiesta e l’autorità giudiziaria che stia indagando sui medesimi fatti. Mutuando la tecnica di giudizio propria della ragionevolezza, si ottiene il risultato di poter modulare i rapporti tra i poteri coinvolti sottraendosi all’eccessiva schematicità dell’alternativa spettanza/non spettanza: la sentenza avrà invece un dispositivo complesso, in cui non si fa prevalere in astratto uno degli interessi costituzionali configgenti. Un sindacato di ragionevolezza è infine presente, in diverse forme, anche nel giudizio di ammissibilità delle richieste referendarie, competenza “eccentrica” rispetto alle precedenti, sia per il plusvalore politico che la caratterizza, sia perché il controllo della Corte sul quesito avviene in maniera astratta e preventiva, amputando la ragionevolezza del legame con i contesti applicativi, sia, infine, per le diverse conseguenze derivanti dalla decisione, la quale preclude l’ulteriore corso del procedimento referendario. La trasposizione del sindacato di ragionevolezza in questa sede trova la sua giustificazione nell’orientamento che ricostruisce il referendum come atto equiparato alla legge, della quale tende a mutuare anche i vizi. In particolare, i confini del sindacato della Corte sono stati estesi, a partire dalla sentenza n. 16 del 1978, tramite l’elaborazione di cause inespresse di inammissibilità. Nel concreto svolgersi del suo sindacato, il giudice costituzionale ha progressivamente trasformato il controllo di ammissibilità del quesito in un giudizio sulla ragionevolezza dell'iniziativa legislativa popolare, che si manifesta in due direttrici: in primo luogo attraverso l'elaborazione di criteri connessi alla formulazione del quesito, riconducibili agli argomenti di razionalità sistematica e di efficienza strumentale; in secondo luogo attraverso il controllo sulla produzione, mediante referendum, di effetti incostituzionali, il quale finisce per anticipare lo stesso giudizio di legittimità della normativa di risulta. Il canone di ragionevolezza diviene in primo luogo criterio guida per la verifica dei requisiti di omogeneità, chiarezza, completezza e univocità, portando ad individuare una “matrice razionalmente unitaria” della domanda. Si sposta così il fuoco del giudizio di ammissibilità dal terreno dell'applicazione di precisi parametri costituzionali al terreno di un giudizio sulla ragionevolezza intrinseca del quesito referendario in funzione di tutela dei valori della libertà di scelta del corpo elettorale e della compatibilità dei risultati del referendum con la coerenza interna del sistema. Inoltre, dopo la metà degli anni novanta, si è consolidata la prassi di prendere in considerazione gli intenti dei promotori, pur nella difficoltà di effettuarne una reale ricognizione, al fine di saggiare l’idoneità del quesito a raggiungere il predetto scopo. Questa operazione ermeneutica teleologica, nei suoi sviluppi più estremi, si risolve in un’analisi di fattibilità del referendum e in un giudizio di idoneità dell’istituto stesso raffrontato all’atto legge, accostandosi ad un sindacato sull’eccesso di potere referendario. La considerazione complessiva dei giudizi in cui viene in rilievo il sindacato di ragionevolezza sembra confermare la validità della tesi, accolta in principio, secondo la quale la ragionevolezza non sarebbe tanto un “principio costituzionale” derivante dall’articolo 3 Cost., quanto un metodo ermeneutico “problematico” che tende a sostituirsi al tradizionale ragionamento giuridico sillogistico-deduttivo. Tale conclusione è avvalorata dalla constatazione per cui esso, per la sua flessibilità, viene indifferentemente utilizzato in una pluralità di contesti tra loro molto diversi, manifestandosi in una serie di tecniche argomentative e decisorie disomogenee. La ragionevolezza rappresenta, dunque, il predicato necessario e il modulo di azione del potere pubblico democratico, di cui pretende la conformità a valori sostanziali di coerenza, adeguatezza, proporzionalità: per questo, si presta ad essere applicata anche nel campo delle relazioni interistituzionali, per un’interpretazione dinamica delle disposizioni costituzionali che attribuiscono le sfere di competenza agli enti o ai poteri dello Stato. Eppure, possono individuarsi dei tratti comuni a tutte le declinazioni di tale giudizio: in primo luogo, l’aderenza al caso concreto e ai contesti applicativi; in secondo luogo l’allontanamento progressivo dall’appiglio ad un preciso parametro costituzionale, la funzione di integrazione di principi o clausole elastiche della Costituzione e dunque la strumentalità rispetto alla tutela di altri valori costituzionali; ancora, la vocazione finalistica delle tecniche argomentative tipiche del controllo di ragionevolezza, che si prestano a ricostruire in chiave teleologica le prescrizioni normative; infine, la tendenza ad esercitare un sindacato sulla funzione, analogo ad uno scrutinio sull’eccesso di potere. L’esaltazione dei poteri decisori della Corte e la creatività che ne derivano, seppur in un certo grado ineluttabili, rischiano tuttavia di connotare politicamente il sindacato del giudice costituzionale, comportando il pericolo di un indebito sconfinamento in valutazioni di merito e di opportunità e mettendo in discussione la legittimazione stessa del giudice costituzionale. Tale libertà e flessibilità di giudizio, inoltre, finiscono per rendere gli orientamenti giurisprudenziali incerti e imprevedibili. Assodata l’irrinunciabilità del canone di ragionevolezza e, al tempo stesso, la debolezza del suo statuto logico, occorre individuare dei contrappesi che compensino tale elasticità e non la trasformino in “un’arma suicida”. Non sembrando praticabile la soluzione consistente nell’elaborazione di test e protocolli di giudizio, alla quale il giudice costituzionale si è finora mostrato restio, l’unica strada concretamente percorribile appare quella di conferire al giudizio di ragionevolezza, tramite un rafforzamento dell’apparato motivazionale, una struttura argomentativa più robusta. Sembra potersi instaurare, così, una diretta proporzionalità tra l’elasticità del canone di giudizio e l’ampiezza della motivazione. Mantenendo il testo della Costituzione come punto di partenza e come limite esterno del sindacato del giudice costituzionale, si può riequilibrare il deficit di certezza che deriva dall’emancipazione dai vincoli formali dell’argomentazione deduttiva, recuperando sul piano della saldezza argomentativa, del rigore espressivo e della coerenza concettuale. Ciò contribuirebbe alla creazione di precedenti che rappresentino un riferimento per la soluzione dei casi futuri e per i comportamenti dei soggetti interessati e, al contempo, assicurerebbe la verificabilità dell’operato della Corte da parte dell’opinione pubblica, consentendo, dunque, un controllo democratico sull’attività del giudice costituzionale al fine di non far apparire il giudizio del medesimo, a sua volta, come l’esercizio arbitrario di un potere.it_IT
dc.language.isoitit_IT
dc.publisherUniversità degli studi Roma Treit_IT
dc.titleLe declinazioni del giudizio di ragionevolezza dinanzi alla Corte Costituzionaleit_IT
dc.typeDoctoral Thesisit_IT
dc.subject.miurSettori Disciplinari MIUR::Scienze giuridiche::DIRITTO COSTITUZIONALEit_IT
dc.subject.isicruiCategorie ISI-CRUI::Scienze giuridiche::Lawit_IT
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dc.description.romatrecurrentDipartimento di Diritto dell'Economia ed Analisi Economica delle Istituzioni*
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T - Tesi di dottorato
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